Bisognerà pur cominciare a fare i conti con le macerie, e a farli davvero. Perché finita la società contadina, messa in soffitta l’idea di sviluppo economico ad infinitum, attraversato un secolo breve di ideologie forti, e disfatto dalla crisi economica (di cui si compiangono i dieci anni in questi giorni) il sogno postmoderno, ci troviamo a fare i conti con un bel po’ di macerie. Viviamo nella “società liquida”, come da definizione di Zygmunt Baumann, ma in quest’habitat liquido troviamo grumi, pietre, schegge, a volte perfettamente disfunzionali, comunque mai troppo domabili e dominabili, di passato. Che compongono la nostra storia, individuale e collettiva. Superarle in nome del progresso non si può più, anche perché stiamo vedendo, anche quella è un’idea che scricchiola. «Non si possono cancellare tutti i passati» dice Vito Teti a linkiesta.it. Teti, oltre a essere uno dei più autorevoli antropologi italiani, è anche uno che ai temi dello spaesamento, dell’abbandono, delle macerie ha dedicato una vita di studi. A partire dal suo paese d’origine, dove tutt’ora vive, San Nicola Da Crissa (VV) in Calabria.
La Calabria è una regione strana. A partire dalla conformazione geologica (sembra fatta di sfasciume, ha scritto Giustino Fortunato), continuando con la costante inquietante dei terremoti, che si fanno sentire a intervalli, con il fenomeno dell’emigrazione, con il carattere mai perfettamente definito dei suoi abitanti (lo stereotipo del calabrese non è mai stato chiaro), è una Terra inquieta (titolo di un libro di Teti). Costantemente abbandonata. In cui non si torna mai del tutto. Un posto pieno di macerie. Oggetti, fisici e culturali, che non servono più, o che sembrano perdere il loro senso. Macerie.
Quindi in un certo senso un paradigma di una condizione più generale. Cultura della krisis al peperoncino? Magari sì, ma finitezza per finitezza forse meglio il peperoncino della panna acida. Intanto Teti racconta il suo ultimo libro: Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, pp. 308, Euro 25) «Abbiamo assistito alle fasi finali della civiltà contadina. Anche fisicamente i paesi si si dissolvevano, tra fughe, partenze. Abbiamo visto la fine dei vecchi rapporti, delle antiche forme di produzione. Della socialità e ritualità tradizionale. Nel dopoguerra, in poco più che un decennio, c’è stato il passaggio a un altro mondo»
Ma in Calabria (come del resto in buona parte del Sud) è anche crollata quasi subito l’idea di far attecchire la modernità: industrializzazione fallita, turismo che non decolla, ecc ecc…
Nel giro di un trentennio si è esaurita. Siamo passati da un mondo tradizionale a un mondo (malamente) postmoderno. Le ferrovie chiudono. Non nasce un’agricoltura moderna. Non nasce una grande città. In qualche modo la Calabria continua a rimanere una sorta di incompiuta. Da questo punto di vista le sue abitazioni mai finite, col tondino di ferro che spunta dai pilastri, sono il simbolo di questa incompiutezza.
Una specie di beffa, da queste parti…
L’antico aveva una sua forza, una sua compattezza. Il moderno non si è mai realizzato. Nei paesi doppi lungo le coste, costruiti a seguito di alluvioni e terremoti, i contadini non ci sono più, non c’è un’economia agro-pastorale, ma non ci sono nemmeno i pescatori e non esiste un’economia legata al mare, diventato semplicemente spazio di devastazione e spesso di abitazioni vissute soltanto durante il mese di agosto. In Calabria rimane un precario, indefinito, incompiuto che si regge sul mondo dell’emigrazione. Nasce una cultura che non è cultura moderna, non è tradizionale. A parte qualche tentativo di retorica, identitaria e pretenziosa, della tradizione. Ma questa è un’altra storia.
Strano, ma forse molto sintomatico, che la chiesa qui abbia fatto di tutto per distruggere la cultura tradizionale
C’è stata una desacralizzazione, una chiesa contemporanea che cercava di distruggere antiche ritualità. E questo ha finito per disorientare le persone rispetto alla loro fede e alla loro cultura.
La festa della Madonna di Polsi fino ai primi anni duemila era viva, poi è stata via via distrutta, dalla chiesa che imponeva rituali moderni, e dalla identificazione della cultura popolare con ‘ndrangheta.
Non è che annullando la ritualità tradizionale si controlla la criminalità. Quella sta bene dovunque, anche nei non luoghi dell’ipermoderno. La cultura popolare, alla fine, è stata demolita dalla chiesa, e strumentalizzata dalla criminalità. E oggi, per controllare la criminalità si cancella quella tradizione. La cultura popolare è finita cornuta e bastonata.
Da cornuti e bastonati, finita una omogeneità culturale, e finito il collante ideologico, come si può ricostruire?
Con una sorta di etica, e anche di estetica, degli avanzi, di ciò che è rimasto. Oggi bisogna riconoscere la potenza, il valore di alcune manifestazioni che nel passato erano considerate segno di arrettratezza, e invece non lo erano. Si è fuggiti nelle fabbriche, si è fuggiti all’estero, si è considerata l’agricoltura qualcosa da abbandonare. Ma la montagna era davvero la zona arcaica, arretrata, improduttiva o invece non è stata “abbandonata” per scelte moderniste e per il mito di un altrove che non era poi l’Eden che si è immaginato? Ecco, sarebbe il caso di riguardare in maniera critica anche il paesaggio, i luoghi, i boschi, le pietre, le acque e in particolare la nostra memoria.
Questo solo in Calabria e al Sud?
Non solo. Tutte le colline e le aree montane del centro e del Nord Italia. C’è una ricchezza che non viene trasformata, che non dà risorse, e invece può darne. E invece potrebbe dare da vivere.
Quella che era stata strombazzata come “decrescita” è diventata non più un intento etico, ma un fatto. Stiamo decrescendo. La cosa strana è che sempre più manifestano l’intenzione di restare, invece di andare via.
Piuttosto che andare fuori per sopravvivere e basta, molti, anche parecchi miei studenti, manifestano l’intenzione di restare. E lo dicono anche ragazzi che stanno in paesi con cento abitanti. Molti decideranno di andarsene, ma vedo sempre più una sorta di reattività. Di disposizione di mettersi in giochi nuovi. Un senso molto generalizzato per i beni artistici e archeologici dei territori. Un’attenzione a quello che rimane…
Quello che resta. Una delle parole-chiave del libro è “restanza”. Rimanere, ma in chiave “esistenziale”.
Si possono vedere in modo diverso i sentimenti di nostalgia e malinconia. Non sono sentimenti patologici, ma modi di affermare una presenza. Perché avere una memoria di cose finite dovrebbe essere negativo? Non è necessariamente un qualcosa di luttuoso. La nostalgia è un modo di essere. Restare ha una sua valenza dinamica, anche inquieta. Il viaggio della speranza non va compiuto più fuori, ma nel posto in cui sei. Che non vedi più come luogo destinato all’arretratezza perenne. Chi resta sta compiendo quel viaggio della speranza che prima si compiva fuori.
Quindi? Cosa fare di questa gran mole di macerie?
Ricostruiamo con i materiali che avevamo scartato prima. In maniera nuova. Non esiste autentica innovazione se si azzera e si ignora il passato. La tradizione è qualcosa di dinamico, che muta, che si ridefinisce – come l’identità – ma non esistono mondi e comunità possibili costruite sulle macerie. Se mai si tratta di ripartire dalle “rovine” intese come memorie ancora vive, elementi identitarie e si tratta di declinare, in maniera diversa dal passato, parole come pietà, misericordia, tenerezza, convivialità, senso comunitario.