Anche questa è moda italiana: ecco Lydda Wear, l’azienda che veste malati e disabili

Si chiama Lydda Wear ed è una piccola impresa padovana che produce abiti per duecento patologie invalidanti. Un piccolo caso

Se c’è una via italiana all’innovazione è quella di guardare a quel che ci succede attorno, anziché guardare verso la frontiera dei megatrend tecnologici. Meglio: a quel che ci succede e a quel che succede alle persone che stanno attorno a noi e a cui vogliamo bene: «È difficile avvicinarsi al mondo della disabilità passeggiando per strada», racconta Pier Giorgio Silvestrin, imprenditore padovano, ultimo discendente di una generazione di sarti e imprenditori tessili. L’azienda di famiglia era una delle tante piccole realtà contoterziste che producevano per i grandi brand della moda milanese: «Negli anni ’80 qua veniva prodotta la maggior parte jeans italiani, noi tagliavamo una grandissima quantità dei jeans di El Charro, E per anni abbiamo tagliato la giubbotteria della Trussardi Sport», ricorda.

Avessero continuato così, oggi sarebbero una delle tante realtà messe in ginocchio dal fast fashion e della concorrenza estremo orientale. Invece succede che il fratello di Pier Giorgio «nasce sulla sedia a rotelle», privato della possibilità di correre e camminare dalla spina bifida: «Fossimo stati un’impresa meccanica avremmo pensato a una sedia a rotelle migliore – racconta Pier Giorgio -, ma eravamo sarti e ci siamo studiati un abbigliamento per lui». Risultato? Oggi Lydda Wear ha 600 prodotti che coprono 200 patologie invalidanti, dalla tetraplegia all’Alzheimer, ognuna delle quali in 15/20 varianti.

Torniamo all’inizio, però, perché racconta molto di come un’azienda come Lydda Wear si è sviluppata: «Siamo nati realizzando un jeans, perché quello era il pantalone che mio fratello voleva indossare», racconta Silvestrin. Un bel problema, perché il jeans, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, è un prodotto con un ciclo di lavoro molto particolare: difficile da costruire, ancor più difficile da decostruire e ricostruire. L’esperimento riesce: via le tasche dietro, che non servono. Più alti dietro e più bassi davanti, per coprire la schiena ed evitare compressioni indesiderate. Nella parte anteriore, l’apertura della cerniera “fino in fondo”, per indossarlo meglio. Soprattutto un’attenzione maniacale all’estetica – dal tessuto, al taglio, ai lavaggi – affinché il jeans assomigliasse il più possibile a quelli “normali”, mimetizzando gli accorgimenti sartoriali per essere utilizzato da una persona diversamente abile.

Il passaparola fa il resto: «In queste famiglie in cui ti arriva tra capo e collo una situazione del genere tendi a frequentare gente coi medesimi problemi, per avere meno problemi con l’esterno – spiega Silvestrin – ricorda Silvestrin -. Frequentandoli, abbiamo cominciato a fare pantaloni per tutti. E poi abbiamo deciso di industrializzare il processo: volevamo fare un prodotto su misura, ma industriale».

Succede che il fratello di Pier Giorgio «nasce sulla sedia a rotelle», privato della possibilità di correre e camminare dalla spina bifida: «Fossimo stati un’impresa meccanica avremmo pensato a una sedia a rotelle migliori, ma eravamo sarti e ci siamo studiati un abbigliamento per lui». Risultato? Oggi Lydda Wear ha 600 prodotti che coprono 200 patologie invalidanti, dalla tetraplegia all’Alzheimer, ognuna delle quali in 15/20 varianti

Le tessere del domino, cominciano a cadere e il business si allarga. Silvestrin comincia a comprare macchine per automatizzare la modelleria e a fare prove per patologie invalidanti differenti, per usi differenti – dalla notte allo sport -, per età differenti. Anche in questo caso, è la necessità che genera la virtù: «Otto anni fa, facendo il controllo pediatrico periodico a mia figlia, le hanno diagnosticato la scogliosi e le hanno prescritto il busto ortopedico». In cerca di una maglietta adatta, Silvestrin si accorge che sono tutte in cotone, un po’ più lunghe, «e io, tecnico della confezione industriale, mi sono accorto che il cotone non andava bene, che sarebbe stato meglio usare il bambù, una fibra che costa carissima». Problema: il fornitore non poteva vendergliene meno di mille metri, anche se a lui ne servivano solo dieci. Soluzione: Silvestrin industrializza pure questa produzione. Risultato: oggi le maglie in bambù fanno il 20% del fatturato di Lyddawear.

Oggi non c’è malattia o quasi, dalla più comune alla più rara, per la quale Lydda Wear non abbia un prodotto studiato ad hoc. Un esempio su tutti, quello della sclerodermia – altrimenti detta dita di cristallo – una patologia rara che colpisce le donne tra i 40 e i 60 anni: «Non le arriva più sangue alle dita, che rischiano di andare in ematoma e cancrena», spiega Silvestrin. La soluzione è un guanto riscaldato ai polimeri di litio. Mix perfetto tra l’artigiania italiana fatta di sessanta artigiani che lavorano i tessuti e l’elettronica del far east, da cui LyddaWear si rifornisce.

Il futuro – manco a dirlo – si chiama storytelling: «Abbiamo sempre avuto un sito internet che non vendesse solo quel che producevamo ma che raccontasse i nostri prodotti e la nostra filosofia. Quel che ci mancava era provare a parlare di Lydda Wear, che si occupa di cose tristi e particolarI, in maniera allegra. Raccontare col sorriso come proviamo a ridare il sorriso a chi ha avuto la sfortuna della malattia». Per questo è nata la collaborazione con Botteghe Digitali, l’acceleratore per gli artigiani che vogliono puntare sulla tecnologia, promosso da Banca Ifis, una partecipazione «nata per scherzo» finalizzata proprio a trovare nuove strade da battere per promuovere Lydda Wear online. Un giusto mix che si fonda su un unica regola: che la cosa più importante è il cliente, non il prodotto: «E quando il cliente è particolare, lo è ancora di più».

Botteghe Digitali è il progetto di Banca Ifis dedicato al made in Italy 4.0

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