Carabiniere o straniero non cambia nulla: caro maschio, metti via lo Stuprometro

Da Rimini a Firenze: ogni volta l'odiosa pretesa di valutare se o quanto uno stupro sia grave per tirare acqua al proprio mulino

Di recente, nella società italiana, complice l’attualità del tema, è stato introdotto un nuovo strumento per valutare la gravità delle violenze sessuali: lo Stuprometro. Grazie a questo prezioso ritrovato della scienza sociale, messo a punto da una privilegiata equipe di illuminati pensatori dell’epoca contemporanea, chiunque può prender parte a frenetiche dissertazioni su quali stupri siano più gravi e quali meno.

L’azimut della gravità, quello che proprio manda in tilt lo Stuprometro, è quando gli stupratori sono cittadini non-italiani dai tratti evidentemente non-scandinavi, possibilmente richiedenti asilo, insomma quelli scuri (marrò o marroncini, del resto non è che cambi molto). Ecco quello è proprio lo stupro più grave, come a dire: passi l’abominio di casa nostra, passi la violenza sulle donne bianche esercitata dagli uomini bianchi, ma da quei vermi PROPRIO NO! (spesso a sostenere in maniera più o meno manifesta questa tesi, sono gli stessi che denunciano l’inesistenza del “femminicidio”, che insultano la Boldrini, che rivendicano i 35 euro al giorno).

Tuttavia, poiché lo Stuprometro è strumento di rara sofisticazione, capace di sublimare i migliori pregiudizi fallocrati, sugli stupri intra-razziali la faccenda si fa più complessa. Ci riferiamo, per chiarezza, agli stupri Made in Italy, spesso sbandierati (anche con buone intenzioni, eh) come argomentazione politica, nel tentativo di arginare la delirante propaganda xenofoba di una certa contro-parte, nota per la lungimiranza delle proprie analisi e la mitezza delle proprie posizioni. Insomma, dài, pure noi italiani sappiamo stuprare, eh! Non è che devono arrivare questi qua adesso, a insegnarcela, la bestialità. Il tutto in un ping-pong di numeri e statistiche, di trend e speculazioni, un’agghiacciante contabilità della violenza che con sommaria miopia non mette a fuoco la tragicità della questione. Non si occupa e non si preoccupa del fenomeno reale, ma della nazionalità di chi lo realizza.

E, ciò va detto, sugli stupri intra-razziali la classifica si fa più complessa, perché lì manca la leva del razzismo, che viene prontamente sostituita da un altro essenziale pilastro intellettuale: il sessismo. Lo stupro-bianco si apre infatti a interpretazioni varie e assortite. “Non è vero” (prendi quelle studentesse americane che a Firenze hanno appena denunciato due carabinieri, seh, figurati, si sa che le americane son tutte bottane). “L’ha inventato”, “Se l’è cercata”, “Era troppo provocante”, “Cosa s’aspetta se va in giro conciata così…” (ve la ricordate Anna Maria Scarfò, abusata in Calabria, in branco, dall’età di 13 anni?), “Mandava segnali equivoci”, “È sempre stata una ragazza turbolenta”, “I suoi costumi sessuali erano discutibili”, “Indossava i jeans” (perché se ti stuprano col jeans vuol dire che sei consenziente). Insomma, se la colpa non è del ne(g)ro infame è della donna facile. In ogni caso, nel nostro solidissimo paradigma culturale occidentale, non è quasi mai responsabilità del maschio bianco, se non in ultimissima analisi.

Ci ho riflettuto dopo aver visto un documentario sulla storia di Recy Taylor, donna afroamericana dell’Alabama, stuprata da 6 uomini bianchi nel 1944, all’età di 24 anni. Recy denunciò i suoi aggressori (rimasti naturalmente impuniti) e diventò un simbolo della lotta per il riconoscimento dei diritti civili nella comunità afro-americana. Fu una delle prime donne a ribellarsi alla consuetudine — perché di consuetudine trattavasi — degli stupri dei bianchi sulle nere. Recy Taylor trovò anche il supporto di un movimento impegnato a far riconoscere lo stupro come reato, in quanto tale, al netto della razza. La sua storia, e quella di molte altre, rompeva il pericoloso cortocircuito tra razza e abuso sessuale.

Non esistono abusi di serie A e abusi serie B. Se ad abusare di te è il sacrestano del tuo piccolo paesello di provincia, non è che ti faccia meno male, non è che ti lasci meno segni, non è che tutto sommato ti sia andata meglio rispetto all’altra che è stata violentata nel parco da un magrebino

Ecco il punto: uno stupro è uno stupro, è un’azione volta a costringere un individuo a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà, mediante l’uso della violenza o della minaccia. Di base, lo stupro, definito asetticamente, è questa roba qui. Naturalmente, è molto altro, ma in senso stretto è questo: violento, criminale, ripugnante, codardo, ma la razza non c’entra. È condannabile di per sé. Non esistono abusi di serie A e abusi serie B. Se ad abusare di te è il sacrestano del tuo piccolo paesello di provincia, non è che ti faccia meno male, non è che ti lasci meno segni, non è che tutto sommato ti sia andata meglio rispetto all’altra che è stata violentata nel parco da un magrebino. Che avvenga in mezzo alla strada o tra le mura domestiche; che sia in chiesa, in caserma, in ospedale, a scuola; che sia singolo o di branco; che sia denunciato o taciuto, occasionale o ripetuto, in ciascuno di questi casi il minimo comune denominatore è lo stesso: la violenza inferta in assenza di consenso. In ciascuno di questi casi sei una sopravvissuta, nello stesso identico modo, con le stesse assimilabili ferite, profonde nelle viscere, destinate a diventare cicatrici indelebili.

Sarebbe importante ricordarlo, ogni volta che si usa lo Stuprometro per indignarsi di un’aggressione più che di un’altra, ogni volta che si consumano bit e byte, e inchiostro, e banda, per decidere quale vittima sia più accettabile delle altre. Dimenticando, quel che è peggio, dopo anni di studio, di film, di canzoni, di visite in musei a tema, di manifestazioni, di ricorrenze e di celebrazioni, che il punto non è il colore del criminale, bensì il crimine che ha commesso. Non si tratta di retorica, ma dell’educazione che tutti abbiamo ricevuto, della cultura – forse più formale che sostanziale – con la quale siamo cresciuti.

Sarebbe importante ricordarlo, ogni volta che si strumentalizza una barbarie per portare acqua al proprio mulinello di opinioni superficiali, di analisi grossolane, di soluzioni a buon mercato, di titoli clamorosi, di dettagli morbosi, di collera e frustrazione nelle quali l’odio razziale è più forte del rispetto, della compassione, dell’empatia con chi quella violenza l’ha subita davvero.

Sulla propria pelle. Di qualunque colore quella pelle sia.

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