È tornato Caparezza, ma i bimbiminkia non lo capiranno mai

Prisoner 709 è il miglior disco del rapper di Molfetta. Pensato. Doloroso. Un album incomprensibile per i ragazzini cresciuti a Dark Polo Gang e Ghali

“Infatti abbiamo preso l’ascensore”.

Ecco, partiamo da un fatto pratico. Siamo dentro la Feletrinelli di Piazza Piemonte a Milano, e tra un’ora circa Caparezza, è lui ad aver parlato, inizierà il suo primo firma-copie per il suo nuovo, attesissimo album, Prisoner 709. a A testimonianza che l’album in questione, il settimo o il nono della sua carriera, poi vedremo nel dettaglio il perché di questa bizzarra affermazione, sia in effetti attesissimo, oltre cinquecento ragazzi e ragazze accorsi per l’occasione, tutti diligentemente in fila col cd in mano, pronti per la firma.

A testimonianza che in effetti abbiamo preso l’ascensore, la mia parola, quella solo avrete a disposizione. Siamo al secondo piano della libreria più nota per gli eventi a Milano, e per salire al secondo piano abbiamo preso l’ascensore. E l’abbiamo fatto per una ragione semplice, anzi per due, io ho quarantotto anni e il mio onomino Caparezza, al secolo Michele Salvemini, ne ha quarantatré, a breve quarantaquattro (ma non si dovrebbe dire, sempre per una faccenda legata al sette e al nove).

“Ho quarantatrè anni, quasi quarantaquattro, anche se per la faccenda del titolo, Seven O Nine mi guarderò bene dal dirlo, come potrei mai oggi scrivere una canzone come Fuori dal Tunnel? Grazie che non vado nei locali, sono un vecchio.”

Ho quarantatrè anni, quasi quarantaquattro, anche se per la faccenda del titolo, Seven O Nine mi guarderò bene dal dirlo, come potrei mai oggi scrivere una canzone come Fuori dal Tunnel? Grazie che non vado nei locali, sono un vecchio


Caparezza

A questo punto, il bravo cronista dovrebbe raccontare di come il critico musicale, colui che sta vergando sul suo computer queste parole, quelle che voi ora state leggendo, è scattato di testa, colpendo Caparezza al setto nasale al grido di “Vecchio un cazzo”. Ma non sta bene che entrare negli articoli che si scrive, quindi il bravo cronista esce di scena, lasciandola, la scena a Caprezza, il cui ritorno è quello di un uomo maturo che ha deciso di scrivere e interpretare l’album di un uomo maturo, Prisoner 709.

Un album, mi ha raccontato senza fiatone, complice l’ascensore di cui sopra. Un album nato da un problema fisico, serio, che ha colpito Michele nel 2015, l’acufene. Il classico fischio all’orecchio, che per un cantante, ci scherza ora su, può suonare quasi paradossale, ma che nei fatti è un vero dramma, perché ti impedisce non solo e non tanto di sentire bene, ma addirittura di stare in equilibrio. Un problema ancora più tragico se di lavoro sei un cantante, perché l’idea di non poter sentire, di mettersi a rischio anche solo durante un concerto, o in studio di registrazione, lo ha posto di fronte a un abisso, come quello di un atleta che di colpo perde la mobilità.

Un problema che lo ha scaraventato in un pozzo, pozzo nel quale Capraezza ha dovuto fare i conti con se stesso, con la sua vita, con la scelta di fare musica nella vita, arrivando quasi a odiare la musica stessa, responsabile, a vedere i bicchiere mezzo pieno, di aver condizionato in toto la sua vita, escludendo la possibilità di fare altre scelte, di percorrere altre srade.

Di questo e di tanto altro ancora parla Prisoner 709, un album, mica a caso, che porta per titol il numero identificativo di un prigioniero, Caparezza, a un certo punto, nel suo destino di musicista con l’acufene. Un album denso di parole, di ragionamenti, di riflessioni, di filosofica e psicologia. E anche di numeri, perché per uno che gioca con le parole come Caparezza, anche la semplice scelta di un numero, quello che avrebbe dovuto indicare il se stesso in prigione, ha acquistato un senso altro, spingendolo a studi e riflessioni.

Un album denso di parole, di ragionamenti, di riflessioni, di filosofica e psicologia. E anche di numeri, perché per uno che gioca con le parole come Caparezza, anche la semplice scelta di un numero, quello che avrebbe dovuto indicare il se stesso in prigione, ha acquistato un senso altro

​Ecco allora il sette e il nove. Seven O Nine, per dirla all’inglese. Sette, come le lettere che compongono il nome Michele, nove come le lettere di Caparezza. Sette come gli album di Caparezza. Che però potrebbero diventare nove se ci si mettono i primi due demo. Sette e Nove. Sette O Nove. Come Ragione e Religione. Ma anche come tante altre parole contenute nel disco, lungi da me rovinarvi la sorpresa di scoprirle ascolto dopo ascolto. Perché Prisoner 709 è un album da ascoltare e riascoltare, uno dei più belli di Caparezza, anzi, il più bello proprio, il più maturo, il più suonato, il più caparezziano seppur nel suo essere meno ironico del solito.

E ovviamente, in virtù dell’essere l’album migliore di Caparezza, uno dei migliori artisti italiani in attività, e non solo, anche uno dei migliori album degli ultimi tempi, in buona compagnia, vien da dire, col solo Recidiva di Mara Redeghieri. Un album denso, apparentemente ostico. Probabilmente troppo difficile per i discografici di oggi, al punto che, incapaci di comprenderlo lo hanno fatto pubblicare così come era, senza riuscire a chiedere collaborazioni imbarazzanti, senza ipotizzare flirt col trap o l’altra merda che gira oggi (stranamente non sono prestenti gli autori di oggi, da Faini a Calcutta, passando per Tommaso Paradiso, e lo si legga col tono di chi ha appena vinto uno di quei Gratta a Vinci che ti regalano un vitalizio di qualche migliaio di euro al mese).

Un album difficile, forse incomprensibile anche per i tanti ragazzini cresciuti a Dark Polo Gane e Ghali, perché con testi che richiedono comprensione. Ma al tempo stesso un album talmente bello e diretto, nel suo essere massimalista, quasi johnbarthiano nell’incedere, da avere al suo interno due canzoni, il nuovo singolo Ti fa stare bene e la lancinante, parlando di acufene è questo l’aggettivo adatto, Una chiave, brano in cui è il piccolo Caparezza a indicare la via della maturità al Caparezza adulto, che potrebbero risultare le due maggiori hit della produzione del nostro.

Noi che siamo sempre fuori dal tempo abbiamo trovato la nostra colonna sonora. Capa, ci si vede tutti a piazza Duomo, tanto lì è tutto in piano, ci sarà da divertirci

Insomma, un album che è talmente tanto da essere un romanzo di formazione, un romanzo che, come spesso capita ai romanzi di formazione, parte da una crisi, nel caso specifico un male fisico, per portare a una crescita, a un passo in avanti, un passaggio di livello.

Caparezza è tornato, e dopo l’estate dell’esercito dei selfie e dei pezzi di me la cosa andrebbe festeggiata con un’orgia in piazza Duomo, e per di più è tornato con un album che rasserena l’ascoltatore adulto, ma che intrigherà anche quello giovane. Un uomo di quarantatré anni, quasi quarantaquattro, che non gioca a fare il ragazzino, ma che fa i conti con la vita.

“Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo, superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene,” canta, rallentando e andando in effetti fuori tempo nel nuovo singolo. Noi che siamo sempre fuori dal tempo abbiamo trovato la nostra colonna sonora. Capa, ci si vede tutti a piazza Duomo, tanto lì è tutto in piano, ci sarà da divertirci.

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