Il bastone. Secondo me Guido Ceronetti, 90 anni di lodi a lui, è il più spassoso tranello della letteratura italiana contemporanea. Riverito come un santone – gli ha pure telefonato il Presidente della Repubblica cantandogli, con i gendarmi in coro angelico, ‘tanti auguri a te…’ – omaggiato pressoché ogni anno dalla stampa patria, Ceronetti, conscio del fatto che il numero sovrabbondante di auguri è inversamente proporzionale alla genialità della sua opera (se tutti ti citano, sei finito, sei pop tanto quanto Fedez, Belen o la Coca), è il putto divino dei giornalisti ‘da terza pagina’. Costoro, poveretti, passano l’anno recensendo indigeste puttanate: una volta l’anno, almeno, parlano di Ceronetti, santificando la propria ignoranza in merito ai fatti letterari. Già, perché, al sugo degli auguri, avercene di Ceronetti, è un tipo simpatico e dionisiaco, un grano di pepe nella zuccheriera degli intellettuali italiani, solo che l’opera di Ceronetti, semplicemente, non c’è. E di un ‘paroliere’ disastrosamente poligrafo come è lui, conta l’opera, mica la vita. Beh, l’opera, ripeto, non c’è. La narrativa – ma avete mai letto Aquilegia o D. D. Deliri Disarmati? Giusto, meglio leggere altro – fa acqua da tutte le parti, è la copia carbone di autori minori letti in una bottega d’Albione, trecento anni fa, Ceronetti pare il segretario allucinato di Thomas De Quincey, l’asinello di Villon, lo stalliere della principessa Sissi. La poesia, poi, è illeggibile, ha il livore di chi sa di non essere poeta ma pensa di essere un dio. Un paio di esempi? Eccoli. “Un cane umanamente cinocefalo/ Nel punto più sensibile ai suoni/ Della casa che vigila viva/ Dormiva”. Alla faccia. Quasi quasi reintegro J-Ax nel canone, dopo Mario Luzi e Milo De Angelis. L’incipit de L’appartamento, “Vite in letargo, dei vivi apparenti/ Strano e indesiderabile portento,/ Riempiono i sonni”, ha il merito di tramutare ogni strofa di Franco Battiato – un altro che ha il dono di voltare la banalità in somma sapienza per le masse – in un ‘classico’ da antologia, tra l’altro meno indigesto di Leopardi, si può cantare sotto la doccia. Certo, la quintessenza artistica di Ceronetti sta nel pensiero ondivago e corrosivo, da trapezista dei paradossi, dicono gli espertoni. Davvero? Il pessimismo icastico di facciata (“Quel che non bisogna assolutamente che i figli sappiano, è che li si è fatti nascere”), l’ovvietà in forma di icona (“Un vecchio che non prega è un puro e semplice rottame muto”), l’aforisma scemo (“Libera nos a Malo. Sarà il Tempo?”), non lasciano tracce nelle ossa dopo la lettura. Ceronetti non ha i fendenti di Emil Cioran, non è disperato come Albert Caraco, non possiede il ghigno di Witold Gombrowicz né la misura alchemica di Borges. Resta un minore tra i minori, più fortunato di tutti, per altro. L’unica cosa da salvare nel falò esegetico sono le traduzioni bibliche, di Giobbe e di Isaia, su tutti, depurate, però, dai commenti logorroici e solipsistici (tipo: “Soave acroamatismo di una Sapienza ipostatizzata!”) scritti, forse, per la comunità di ubriachi talmudisti che abita il cuore di Ceronetti. Pare che per i suoi primi 90 anni, Ceronetti voglia deliziarci di un ultimo, ennesimo libro. Ne faremo a meno. Ceronetti, passaporto da anticonformista per ogni stagione, per i giornalisti stagionati nel perbenismo, ha pubblicato con Einaudi, Rizzoli, Adelphi. Mica male per uno che fa l’eccentrico: macché, Guido Ceronetti è uno come tutti. Più vecchio di altri, semplicemente.
Guido Ceronetti, opera omnia (in attesa dell’ultimo libro)
La carota. Se volete un vero autore eccentrico, marginale, ignorato, bistrattato, geniale… ve ne impiatto due al prezzo di uno. Fate in fretta a ricordarli perché hanno lo stesso cognome, anche se non c’è un grammo di parentela che li leghi. Il primo è Dario Villa. Dario Villa è nato a Milano nel 1953, aveva i capelli lunghi, il viso intagliato nella cera e dei lungimiranti papillon. Morì troppo giovane, nel 1996, dando vita a placche dai titoli naif (L’ala dell’imbecillità, La bambola gonfiabile e altre signore, Periplo delle perplessità), autore, dopo un esordio precoce – nel 1980, sull’almanacco Poesia Uno di Guanda – e un libro che fece scoccare applausi – Lapsus in fabula, nel 1984, per la Società di Poesia – di un volume di drastica bellezza, a un passo dalla fine, nel 1995, per Marsilio, Abiti insolubili. Adorato dal più influente poeta degli ultimi quarant’anni, Giovanni Raboni (“credo che pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, siano stato così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentati dalla grazia”, scrisse di lui), Villa è l’incrocio tra un poeta surrealista e un presocratico, una strana congiura tra René Char ed Eraclito, dotato di verso apodittici (“siamo un’ombra del caso/ procediamo da cause sconosciute/ precipitiamo come nebulose/ in un fuoco di rose”) e apocalittici (“bestie stratificate urgono sotto,/ divorate da inutili secondi,/ braccate dalla coda, il muso muto/ e chiuso, somigliante ad altro, all’ombra/ di una parvenza, a un morso,/ a un lupo, al vuoto”), spesso indimenticabili. Ovviamente, dal momento che Dario Villa è un poeta vero, perciò ostile ai facili sofismi giornalistici, di lui, oggi, in libreria, c’è nulla: l’ultimo libro, quello che raduna Tutte le poesie, stampato quasi clandestinamente per Seniorservice Books, risale al 2002, un era bibliografica fa. Non troppo diverso il caso del longevo Emilio Villa (1914-2003), il quale, va detto, ben prima di Ceronetti – e con impeto ancor più incendiario, da creatore di linguaggi, di lignaggi grammaticali più che da filologo – s’è messo a tradurre la Bibbia (le versioni di Giobbe e del Cantico dei Cantici sono edite nel 1947, tutto il resto, cioè quasi tutto il testo sacro, è nell’oblio dell’Archivio Villa presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia; in una delle sue mille vite, Villa è stato “consulente storico alla realizzazione del film La Bibbia, iniziato da John Huston nel 1964”). Villa ha fondato riviste (Habitat, in Brasile, ad esempio), scritto testi teorici necessari alla nascita della neoavanguardia e a dare impulso nuovo ad artisti come Alberto Burri, Claudio Parmiggiani, Mimmo Paladino (leggetevi il miracoloso Attributi dell’arte odierna) e dissipato il talento poetico – inteso come vendemmia della lingua, come eccidio della ‘comunicazione’ in favore del fervore glossolalico – in decine di plaquette per editori d’arte semisconosciuti. Di Emilio Villa, artista totale, che pagò tutto e non aveva paura di fare la fame, resta la traduzione dell’Odissea per Feltrinelli, L’opera poetica radunata da L’Orma nel 2014, un catalogo, ricchissimo, Emilio Villa poeta e scrittore, edito da Mazzotta nel 2008. Come sovrana leccornia per bibliomani, De Piante Editore sta pubblicando, in edizione di pregio, disegnata da Alessandro Busci, La danza dei cadaveri La fiera dei venduti, un inedito del 1978 commentato da Aldo Tagliaferri. Trattasi di “furibonda invettiva villiana” contro il sistema dell’‘intelligenza’ italidiota, contro “il regno delle mosche” dei “pisciatori di volumi, pisciavolumoni, raccoglitori d’archivi, cacatori di antologie posizionali posizionistiche edonistiche parastatalizzate paralitiche paraculari paraoculari”. Una boccata di rabbia buona. Altro che Ceronetti, il cerottino sull’ulcera dell’editoria italica.
Emilio Villa, La danza dei cadaveri La fiera dei venduti, Edizioni De Piante, pp.22, in 300 copie numerate più 20 con sovracoperta originale realizzata dall’artista, euro 30,00 (www.depianteditore.it)