I consigli letterari di Piperno? Timidi coccodé senza guizzo. Se volete scoprire i migliori scrittori fidatevi del “genio” di Harold Bloom

"Il manifesto del libero lettore" di Piperno è un elenco di banalità scritte per confortare i lettori dilettanti. Andate oltre voi stessi alla scoperta dei cento autori degni di essere letti scelti dal critico americano. Ne avrete per una vita intera

Il bastone. Alessandro Piperno mi ha sempre fatto l’effetto di un vestito contraffatto, di un paio di box cuciti in Bangladesh a cui sia stata applicata, grottescamente, la griffe Armani. Piperno è l’incarnazione della fine del romanzo occidentale, inversamente proporzionale alla pimpante economia di mercato del romanzo. I romanzi pullulano e la mamma dei romanzieri, come quella dei cretini, è sempre incinta, “si dà il caso che ci sia ancora parecchia gente che scrive romanzi, e ancor più che li legge”, dice, tutto felice, son felice per lui, Piperno, ma non c’è romanzo, oggi, che superi la prova di un decennio, ma cosa dico, di un semestre. Gomorra è letteralmente annientato da uno qualunque dei romanzi di J. G. Ballard – e non ho mica detto Guerra e pace – Con le peggiori intenzioni di Piperno è molto peggio di un romanzo qualunque di Guido Piovene, di Giuseppe Berto, di Ferdinando Camon. In ambito letterario, si sa, non contano le buone intenzioni, vale solo il talento. Piperno, che sogna di essere almeno il tagliaunghie con cui Philip Roth, “il massimo scrittore vivente” – parere suo – si affetta la zanna del mignolo, non scrive romanzi, fabbrica scatole di ceramica che riproducono decorazioni rètro, altrui: apri la scatola e dentro è il rimbombo del vuoto. Così, incapace di pensare il romanzo che uccida tutti gli altri – se non è animato da un feroce senso di inferiorità contraddetto da una sana voglia di vendetta, un romanziere è il solito apologeta delle cose già dette, già scritte – Piperno indossa la stola del letterato, sparge giudizi a destra e a manca, come acidi petali di rose, manco fosse Tolstoj o Nabokov o Joyce (che ce ne frega di sapere che “una strana forza” impone a Piperno di rivedere Pulp Fiction e Magnolia “e ogni volta ne traggo un piacere del tutto rinnovato”?), ci fa ingollare gli “otto scrittori di cui non so fare a meno”, ovviamente tutti morti, Piperno ha il coraggio di una talpa, così “eviti rispostacce o telefonate nel cuore della notte”. Il libro, scritto surfando sull’onda di una grammatica mediocre ma accuratamente snob, è un pollaio di sentenze masturbatorie, di frasi cadute dall’olimpo dei fancazzisti per soddisfare la vanità dei gonzi. Esempio: “viviamo tutti nell’illusione dell’unicità dei nostri sentimenti”; “i romanzi che amiamo sono quelli che sentiamo l’esigenza di sottolineare quasi a ogni riga”; “la prosa di uno scrittore dice di lui più di quanto egli stesso non sappia e non voglia”; “l’insuccesso è una brutta bestia per chi scrive”. Tutte lapalissiane idiozie che ci costringerebbero al dito in gola se le leggessimo in un romanzo. Ma Piperno, il don Abbondio (lo dice lui: “è un codardo, ma chi non lo è?”) della narrativa italiana recente – quasi tutta da ripassare al rogo della controversia – ama allineare sciocchezze confortando il “libero lettore” che piace a lui (“un dilettante” che “cerca atmosfere, personaggi, buone storie” e non rompe i coglioni, pare una bambola gonfiabile per dare la certezza a Piperno e a quelli come lui di essere un romanziere e non un contastorie qualsiasi) con la convinzione di aver letto qualcosa di intelligente. Così, sbocciano metafore astruse come questa: “una grande pagina di narrativa non somiglia all’ovale perfetto e levigato di una ragazzina, semmai al muso rugoso e corrucciato di Spencer Tracy”. Oppure agghiaccianti speculazioni filosofiche come questa: “se flirti con una ragazza su WhatsApp e lei di punto in bianco smette di rispondere ai tuoi messaggi marpioni e allusivi, ci sono buone probabilità che in un paio di giorni tu possa ritrovarti invaghito seriamente come non ti capitava dai tempi del liceo” (probabilmente, Piperno parla di se stesso). Il problema è che nelle buone letture di questo curato della narrativa, che vanno da Tolstoj a Nabokov, da Stendhal a Dickens, affliggendoci di tanti buoni pensieri di pessimo gusto (sui libri di Jane Austen al cinema, ad esempio: “per quanto i film tendano a rispettare alla lettera i testi dei romanzi, non di rado ne tradiscono lo spirito”, che flautata tautologia…), manca l’affondo, l’intuizione, il guizzo, il bagliore di un rasoio che sappia dissezionare un’opera, mostrandoci le gloriose pudenda dei grandi scrittori. Piperno è così: tratta la letteratura come un delicato passatempo – lo dice subito, “i libri sono strumenti di piacere… non il fine ultimo della vita”, sono dei vibratori, mica dei vangeli – ne parla come si compila la posta del cuore e si danno i consigli per impalmare una bella fanciulla all’altare – mentre noi vorremmo solo impalarla al muro. “Leggere romanzi, scrivere romanzi, pensare ai romanzi… discutere di romanzi… non ricordo di aver fatto altro nella vita”, scrive lui. Peccato. Una vita passata coltivando la peggiore delle attività e delle ambizioni. Tranquillo, Piperno, hai ancora tempo per fare altro.

Alessandro Piperno, Il manifesto del libero lettore. Otto scrittori di cui non so fare a meno, Mondadori, pp.156, euro 18,50

La carota. Per quel che mi riguarda, amo i libri incompiuti e infiniti, funi verbali gettate nell’abisso, scritture per cui lo scrittore è in grado perfino di perdere la vita. Nello scaffale delle cose belle, perciò, tengo La morte di Virgilio di Hermann Broch, Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe, Sotto il vulcano di Malcom Lowry e tutto Franz Kafka, flirto con Marina Cvetaeva e sono sedotto più dalla grandguignolesca intelligenza di Vladimir Nabokov che dai suoi arzigogolati romanzi, il gargarismo di un lord. Detto questo, ai coccodè di Piperno sulla narrativa, non abbiamo tempo da perdere in letture a vanvera, meglio sostituire il pensiero dei titani della letteratura. Wystan H. Auden, per dire, straordinario poeta troppo complesso per i gusti comuni, scriveva come un dio e aveva capito tutto su: leggi del mercato che disintegrano la felicità artistica (“ciò che offrono i media non è arte popolare, bensì intrattenimento destinato, come il cibo, a essere consumato e quindi dimenticato e sostituito da un nuovo piatto. Questo è un danno per tutti: la maggioranza perde ogni genuina forma di gusto, e la minoranza si trasforma in snobistica élite culturale”), bestialità dell’ego dello scrittore (“Nessun poeta o romanziere vorrebbe essere l’unico mai esistito, ma molti ambirebbero a essere gli unici esistenti, e non pochi nutrono l’infondata convinzione che tale desiderio sia stato esaudito”), assoluto rischio del creare (“Agli occhi altrui si è poeti se si è scritta una bella poesia. Ai propri, lo si è solo nel momento in cui si danno gli ultimi tocchi a una poesia nuova. Un attimo prima si era ancora e soltanto un poeta in potenza; un attimo dopo si è uno che ha smesso di far poesia, forse per sempre”). Questi pensieri – quasi sempre di cocente audacia – sulla scrittura sono raccolti in La mano del tintore, un volume edito da Adelphi nel 1999. Se invece volete dei ‘consigli di lettura’, beh, allora fidatevi di Harold Bloom, ne Il genio (Bur, 2004) allinea cento autori degni di essere letti, ne avete per una vita intera. Bloom non piace a Piperno perché ha una visione un po’ troppo competitiva della letteratura: ma la letteratura è un campo di battaglia dove, modestamente, si fa a duello con Dante e Shakespeare e Tolstoj, non è affare per pavidi o per chi vive sul triclino della gloria editoriale. “Il pensiero di massa è la rovina dell’era dell’informazione ed è ancor più nocivo nelle nostre obsolete istituzioni accademiche. Lo studio della mediocrità, qualunque sia la sua origine, genera mediocrità”, scrive Bloom. Ecco, lasciamo Piperno a friggere nel pantano della mediocrità insieme agli amichetti suoi.

Harold Bloom, Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, Bur, 2004

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