Coraggioso, necessario, ma irrealizzabile. Almeno fino al 2019. Il discorso sullo Stato dell’Unione di Jean-Claude Juncker pronunciato ieri nell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo è un manifesto delle riforme di cui l’Ue avrebbe un disperato bisogno ma che sarà molto difficile attuare. Sicuramente non entro questa legislatura.
Dal ministro delle Finanze europeo, al Super presidente dell’Unione, fino il rilancio della difesa comune, in tutti questi temi c’è una profonda spaccatura tra gli Stati sul come e se attuarli. L’ambizione di Juncker è quella di presentare il 30 marzo 2019 un piano di riforme che rilanci l’Unione europea, durante il vertice a Sibiu, in Romania. Il giorno dopo la fine del negoziato Brexit. Un modo simbolico per celebrare la nuova Europa a 27.
Per farlo, il presidente della Commissione europea vuole mettere una “questione di fiducia sull’Europa”: cioè far approvare dal Consiglio europeo, l’organo formato dai capi di Stato e di Governo dei 28 Paesi, questo pacchetto di riforme a maggioranza qualificata (almeno 2/3). Finora si è sempre deciso tutto all’unanimità.
Questo “all in” politico è possibile, lo permettono “le clausole passerella” introdotte dal Trattato di Lisbona. Juncker vuole costringere gli Stati a digerire alcune riforme in nome della visione d’insieme: il rilancio dell’Unione europea post Brexit. Un’ultima chiamata per i Paesi che voglio riformare l’Ue e una forzatura politica per quelli che si opporranno.
Partiamo dalla coraggiosa proposta di fondere in una sola carica le figure di presidente della Commissione e presidente del Consiglio europeo: “L’Europa sarebbe più facile da capire se fosse un solo capitano a guidare la nave” ha detto Juncker. E ha ragione.
La casalinghe di Voghera, o quelle di Amburgo o Valladolid, non hanno idea della differenza tra le istituzioni europee e vivono benissimo così. Pensano che Consiglio e Consiglio europeo siano la stessa cosa. Spesso li confondono con il Consiglio d’Europa che con l’Ue non c’entra nulla. Semplifichiamoci la vita, avviciniamo l’Ue alle persone.
Sarebbe più facile anche per l’opinione pubblica europea avere un unico riferimento politico a cui chiedere conto della condotta dell’Unione. Un Super presidente che guidi gli altri Stati e si assuma le responsabilità, specialmente nei momenti di crisi. La proposta di Juncker potrebbe essere realizzata senza cambiare i Trattati europei.
Ma c’è un problema insormontabile: gli Stati non accetteranno mai un Super presidente. Non sono certo affezionati all’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Il polacco famoso per la sua “zeppola” è un centrista liberale, perfetto per mediare tra le posizioni dei vari leader europei e come tutti i soprammobili politici, utile per le photo opportunity, ma niente di più. Alcuni leader europei hanno già bocciato la proposta, il primo su Twitter è stato il premier danese Lars Løkke Rasmussen: “Non mischiamo i ruoli e le competenze, serve un europresidente che rappresenti le voci degl Stati membri”.
L’ambizione del lussemburghese è quella di passare alla storia come il presidente della Commissione che rilanciò l’Ue dopo la Brexit. Vuole diventare il nuovo Jacques Delors, il più influente e incisivo tra i suoi predecessori. Ma non sarà così.
Anche sulla creazione di un Ministro unico delle Finanze europeo ci sono dei contrasti. Juncker vuole accentrare le figure di presidente dell’Eurogruppo, l’organismo che riunisce i ministri delle finanze dei Paesi che hanno l’Euro, con quella del commissario europeo alle finanze.
Mr. Euro guiderebbe così il fondo monetario europeo coordinando i bilanci dei 27 Stati e finanziando gli investimenti. Anche qui condivisibile. Stati con la stessa moneta dovrebbero avere politiche fiscali e di bilancio comuni, e finanziamenti su scala europea sarebbero più incisive. Inoltre un ministro unico eviterebbe i momenti d’indecisione nelle crisi e tranquillizzerebbe i mercati. La Banca centrale europea potrebbe tornare al suo ruolo originale di semplice vestale dell’inflazione al 2% e non più il ruolo quasi politico che ha assunto con la presidenza Draghi.
Sulla carta tutti i Paesi sarebbero favorevoli, ma a modo loro. Come ha scritto Fabrizio Patti qui su Linkiesta, la Germania vorrebbe un rigido controllore dei vincoli di bilancio, Italia e Francia invece un ministro autonomo più attento ai finanziamenti che alle regole. Difficile pensare di trovare in 18 mesi un accordo partendo da posizioni così distanti.
Tutto è possibile in politica, ma ci sono troppe variabili per concludere tutto entro il marzo del 2019. Oltre agli scontri tra gli Stati, nei prossimi mesi alcuni eventi politici potrebbero sconvolgere il piano di Juncker.
Il 24 settembre ci saranno le elezioni in Germania. La vittoria dell’attuale Cancelliera Angela Merkel è scontata ma è tutto da decidere con quale schieramento governerà. Ci sarà ancora una coalizione con l’SPD, il partito socialdemocratico tedesco? E quali saranno i rapporti di forza? Ci sarà ancora il falco dell’austerity Wolfgang Schäuble, alle Finanze? Gli equilibri interni del prossimo Governo Merkel condanneranno o nella migliore delle ipotesi condizioneranno l’approvazione del “pacchetto Juncker.”
Nella primavera del 2018 si voterà anche in Italia, con il rischio concreto di un Parlamento bloccato, senza maggioranza di Governo, costretto a nuove elezioni. Non solo, il nostro Paese potrebbe non avere un referente politico chiaro e legittimato dal voto popolare, pronto ad assumersi la responsabiltà del grande salto.
Elezioni nazionali a parte, per i prossimi 18 mesi la Commissione dovrà portare avanti il negoziato Brexit. Finora si è quasi scherzato. Col passare dei mesi, quando si discuterà di multe, risarcimenti, confini irlandesi e diritti dei lavoratori, l’opinione pubblica europea sarà assorbita dalle polemiche tra Londra e Bruxelles e ci sarà poco spazio per parlare d’altro.
Poi a giugno del 2019 poi si voterà per rinnovare il Parlamento europeo e Juncker ha già dichiarato che non si candiderà per un secondo mandato. Il suo discorso diventa così un testamento per il prossimo presidente della Commissione europea: più giovane (politicamente e non), carismatico e magari eletto direttamente.
L’ambizione del lussemburghese è quella di passare alla storia come il presidente della Commissione che rilanciò l’Ue dopo la Brexit. Vuole diventare il nuovo Jacques Delors, il più influente e incisivo tra i suoi predecessori. Ma non sarà così.
Realisticamente Juncker può solo aprire la strada a queste riforme, rendendo più credibile politicamente il suo successore e la prossima squadra di commissari. Intelligente la proposta citata nel discorso di creare un “codice di condotta” per i Commissari: non più frutto di un negoziato con gli Stati dopo il voto, ma candidati fin da subito nelle liste per l’Europarlamento. Saranno così più credibili agli occhi degli elettori.
Nella lista dei desideri di Juncker ci sono alcune proposte realizzabili nell’immediato: come l’avvio dei negoziati per raggiungere l’accordo economico con Australia e Nuova Zelanda. La conclusione è prevista per il 2025. Anche qui la scelta è coraggiosa: sostituirsi agli Stati Uniti come leader del mercato globale, siglando accordi commerciali nei Paesi dove l’isolazionista Trump sta lasciando spazi. Così come giusta e necessaria è la proposta di una manovra protezionista per tutelare gli eventuali acquisti dall’estero di aziende strategiche europee. Una mossa che finalmente guarda alla Cina senza il timore o la confusione degli ultimi anni,