L’11 settembre del 2001 hanno vinto loro

Credevamo la Storia fosse finita, che la democrazia liberale fosse l’unico mondo possibile, che il potere delle religioni fosse residuale: guardate il mondo ora, a sedici anni di distanza

DOUG KANTER / AFP

Daniel McWilliams e George Johnson sono ancora pompieri, e hanno fatto un po’ di carriera. William Eisengrein invece è in pensione ed è per questo che ogni tanto si fa intervistare dai giornali. Dell’11 settembre 2001gli restano i ricordi e i tatuaggi, in particolare quello che si fece fare nel 2002 sull’avambraccio destro, con il profilo delle Torri Gemelle. Per anni li abbiamo visti nella celeberrima foto scattata da Thomas Franklin: loro tre, coperti di polvere, in bilico sulle macerie lasciate da Al Qaeda, con una bandiera americana in mano. Ancora oggi, McWilliams, Johnson ed Eisengrein sono convinti di essere stati immortalati mentre la alzavano. Non sapevano allora, e molti non lo sanno tuttora, che stavano invece cominciando ad ammainarla.

Dovremmo ammetterlo, prima o poi: quel giorno hanno vinto “loro”, chiunque fossero i terroristi, chiunque siano poi diventati. Il mondo, adesso, somiglia assai più a ciò che pensavano o volevano loro e assai meno a ciò a cui eravamo abituati noi. Eravamo, in quel 2001, in piena euforia da fine della Storia, come recitava il titolo di un saggio pubblicato da Francis Fukuyama nel 1989. Il Muro di Berlino andava giù, le azioni di Wall Street andavano su, come non pensare che la democrazia liberale fosse l’apice della civiltà umana? E come non essere convinti che gli Usa, a loro volta tempio della democrazia liberale, fossero destinati a guidare il mondo arrivato al massimo del proprio sviluppo?

Fukuyama, del resto, era sicuro che la Storia si sviluppasse in una sola direzione, cioè in avanti. E che tale sviluppo avesse due motori: lo “spirito della scienza”, cioè la tendenza dell’uomo ad adeguare il proprio modo di vivere in base all’evoluzione cognitiva e tecnologica; e il “desiderio di riconoscimento”, cioè il bisogno dell’uomo di veder riconosciuta la sua peculiare identità (religiosa, politica, sociale, sessuale…) da tutti i simili, cosa che può avvenire solo attraverso la democrazia.

Gli attentati dell’11 settembre, anche nel loro tributo di sangue, furono una rappresentazione plastica di quella convinzione. La maestosità dei grattacieli nel cuore finanziario del mondo, la tecnologia applicata alla globalizzazione. Le quasi tremila vittime, nate in 90 Paesi diversi e per il 18% di passaporto non americano, a incarnare il richiamo universale e il riconoscimento di ognuno nella democrazia liberale in quel Paese.

n molte pagine di delirio politico-religioso, il leader di Al Qaeda scriveva anche: “La libertà e la democrazia di cui voi parlate è riservata a voi stessi e alla razza bianca. Al resto del mondo imponete politiche e Governi mostruosi che chiamate “amici dell’America”. E poi badate bene che non diventino democrazie”. Il fatto che lo scrivesse il re dei terroristi non lo rende meno vero

E oggi? Siamo lontani anni luce da quello stato d’animo. Chi guarda più agli Usa come al faro dell’Occidente? E non raccontiamoci frottole, questo processo non è cominciato con Donald Trump. Al contrario, Trump è il prodotto, o meglio uno dei prodotti, dell’ammainabandiera cominciato sulle macerie dell’11 settembre. Nel mondo finito in quel giorno vivono ormai solo i Paesi dell’ex Est Europa più forse il Regno Unito, mentre Germania, Italia, Francia, Spagna e tutta la cosiddetta Vecchia Europa se ne tengono ormai alla larga. L’assalto furioso dei diciannove dirottatori e il rombo degli aerei lanciati contro le Torri hanno disperso, una volta per sempre, quella che Régis Debray, in un libro acuto e stimolante intitolato Civilisation, ha definito “la confusione tra planetario e solidale, tra uniforme e universale”.

Continua Debray: “Un’umanità priva di priva di memoria e di progetto è condannata e si riduce rapidamente alla gestione sempre più precaria delle differenze etniche, religiose e politiche”. Bastò Al Qaeda, nel 2001, a dimostrare che il progresso scientifico e tecnologico non è il collante universale dei popoli, così come non basta Internet a costruire uno spazio comune tra le persone. E bastammo noi a dimostrare che tutta quell’enfasi sul riconoscimento attraverso la democrazia era poco più che retorica. Ci sono grandi popoli, per esempio quello russo e quello cinese, a cui delle garanzie democratiche importa assai meno che di altre cose, per esempio la stabilità dello Stato, la sicurezza, un minimo di garanzie economiche, l’orgoglio patrio. È lì che molti milioni di persone trovano il “riconoscimento” di cui parlava Fukuyama.

E questo sarebbe anche il meno. Il problema vero è che siamo tutti convinti che la democrazia liberale sia il meglio del meglio. Lo crediamo così fermamente che non esitiamo a fare cose per nulla democratiche e per nulla liberali per difenderla. E, soprattutto, per affermarla ricorriamo di continuo all’aiuto dei peggio regimi autocratici e illiberali. Lo diceva Osama bin-Laden nella Lettera agli americani, diffusa nel novembre 2002 per giustificare gli attentati dell’11 settembre. In molte pagine di delirio politico-religioso, il leader di Al Qaeda scriveva anche: “La libertà e la democrazia di cui voi (gli americani, n.d.r) parlate è riservata a voi stessi e alla razza bianca. Al resto del mondo imponete politiche e Governi mostruosi che chiamate “amici dell’America”. E poi badate bene che non diventino democrazie”.

Il fatto che lo scrivesse il re dei terroristi non lo rende meno vero. Nè meno verificabile nel quotidiano, anche oggi, sedici anni dopo le stragi di New York. Ci affanniamo a maledire Bashar al-Assad e a studiare il modo di trascinarlo davanti a un qualche tribunale per i suoi crimini di guerra, in nome della democrazia e della libertà. E sempre in nome di detta democrazia e detta libertà non esitiamo a dare pacche politiche sulle spalle di Omar al-Bashir, dal 1989 (l’anno del saggio di Fukuyama, perbacco) padrone del Sudan dopo un golpe militare e dal 2009 ufficialmente ricercato dal Tribunale penale internazionale per “genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra” commessi in Darfur, dove morirono più di 400 mila persone e 2,5 milioni di profughi persero tutto.

E così, ripetiamolo, hanno vinto loro. Con quattro aerei e diciannove kamikaze hanno fatto saltare l’illusione che un po’ di tecnologia e un po’ di retorica facessero visione e progetto. In sedici anni siamo finiti a farci terrorizzare da qualche pazzo che corre in strada con un coltello. Perché l’11 settembre 2001 gli uomini di Al Qaeda ci hanno imposto la loro, di illusione. Che il progresso, faticoso e pagato a caro prezzo, non conti nulla di fronte all’esempio di un califfo vecchio di quattordici secoli. Che la democrazia non sia il sistema politico più proficuo (il più ampio numero di diritti possibile per il più ampio numero di persone possibile) ma un sistema tra i tanti. Che la religione sia un bastone e non una stampella. Da anni, ormai, siamo nel loro mondo, per questo facciamo tanta fatica. È bastato un attentato, pur clamoroso e terribile, a farci fare un salto spazio-temporale degno dell’Enterprise del capitano Kirk. Quanto eravamo deboli e quanto ci credevamo forti, sedici anni fa.

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