Le violenze contro i rohingya continuano e c’è chi vuole togliere il Nobel ad Aung San Suu Kyi

La donna, di fronte alla repressione – per alcuni addirittura pulizia etnica – non ha detto nulla. Dopo 15 anni di arresti domiciliari ha un ruolo pubblico: consulente del governo (che resta nelle mani dei militari). Ma non condanna niente e Malala se la prende

Le violenze non si fermano: dal 25 agosto 2017 almeno 123mila profughi di etnia rohingya hanno lasciato Myanmar (Birmania) per rifugiarsi in Bangladesh. È uno dei calcoli più accurati, pare, fornito dall’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. La fuga è causata dalle violenze delle forze armate nei confronti della minoranza rohingya (di religione islamica): proseguono da anni e che da poco hanno visto una recrudescenza. Secondo alcuni, si può parlare di “pulizia etnica”.

E intanto, Aung San Suu Kyi, non presidente ma consigliere di Stato, che fa? Niente. Che dice? Niente. Anzi. Le sue uniche dichiarazioni in merito alla questione risalgono al 2013: “No, non è una pulizia etnica”, aveva detto. E oggi il suo silenzio non fa altro che confermare quella posizione. Eppure, dicono alcuni, è un premio Nobel per la pace. Dovrebbe parlare, reagire, opporsi a quanto succede.

La prima a farlo notare è la sua collega, Malala Yusafzai, la ragazza pakistana che, dopo essere sfuggita a un attacco dei talebani – arrabbiati per le cose che scriveva nel suo blog sul sito della Bbc – ha trovato rifugio e conforto in Gran Bretagna.

Insieme a lei si sono indignati altri 12 Nobel per la pace, tra cui Mohammad Yunus, che hanno firmato una lettera aperta per chiedere la condanna dei crimini. “Despite repeated appeals to Daw Aung San Suu Kyi – scrivono – we are frustrated that she has not taken any initiative to ensure full and equal citizenship rights of the Rohingyas. Daw Suu Kyi is the leader and is the one with the primary responsibility to lead, and lead with courage, humanity and compassion”.

Insomma, ci è o ci fa? Certo, da un lato è vero che è facile fare il Nobel per la pace scrivendo su un blog in Inghilterra o accordando prestiti di microcredito. Altra cosa è farlo governando – anzi: lavorando da consulente di governo, con il potere che resta sempre nelle mani dei militari senza spazio di manovra – in uno dei Paesi meno democratici del mondo dove la minoranza perseguitata, va detto, è comunque violenta. Dopo 15 anni di arresti domiciliari in seguito alla vittoria, poi non riconosciuta dalla giunta militare, alle elezioni del 1988. Una parola, però, la poteva dire.

Con questo criterio, poi, non sarebbe nemmeno l’unica figura cui ritirare il premio. Barack Obama non è che abbia fatto molto meglio (Afghanistan, Siria, Libia e soprattutto Guantanamo), per non parlare di Arafat. Gli stessi giurati svedesi si sono levati ogni responsabilità: quando il premio è dato è dato, hanno detto in merito alla questione. Ma direbbero così se si scoprisse che i libri del premio nobel per la letteratura del 2010 Mario Vargas Llosa, per fare un esempio assurdo, erano stati scritti dal vicino di casa? Non ci ripenserebbero?

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