Dopo oltre vent’anni di onoratissima carriera passati a veleggiare sulle 100mila copie a numero — stando a quello che dichiara Panini — Leo Ortolani ha portato a compimento la gigantesca operazione di chiusura della serie dedicata alla sua creatura, Rat-Man, che, arrivato al 122esimo episodio, fa la cosa più normale per un essere vivente, che sia di carne o di carta poco importa: finisce.
Finisce, esatto. Chiude. Basta. Stop. E non c’è che dire, la verità è che in un paese come l’Italia, dove sono tutti i campioni del mondo del rottamare e del chiudere le cose degli altri, non si accetta mai e poi mai che il tempo della fine sia arrivato, be’, è proprio una notizia che ha veramente dell’incredibile, anche se di certo non ha dell’inaspettato.
Questo giorno era scritto infatti da tempo, un po’ come i grandi personaggi che si progettano il funerale, tanto che è lo stesso Ortolani a usare la metafora mortuaria, con una precisazione: «ovviamente un funerale di quelli con la banda», dice durante la conferenza stampa organizzata per il lancio dell’ultimo episodio, poco prima della nostra chiacchierata.
«È stato intorno al numero 70-71 di Rat-Man che ho iniziato a progettare la fine», ha riattaccato quando gli ho chiesto la domanda più scontata dopo aver assistito a un funerale così ben progettato: “quando hai capito che doveva finire?”. «Mi ero lasciato alle spalle due parti importanti e sapevo che stava cominciando l’ultima», ha continuato, parlando a bassa voce, per non disturbare, ma non smettendo mai di ridersela sotto baffi che non ha. «Così ho cominciato piano piano a identificare e a chiudere tutto ciò che era rimasto in sospeso, in maniera da non poter tornare indietro. È come prendere un corridoio in cui ci sono porte che devi chiudere sapendo di non poterle più riaprire».
Vengono le vertigini solo a pensarci, è stato difficile?
Sai, è una cosa inevitabile, del resto anche la vita è così, ogni anno che compi ti lasci indietro cose che avranno conseguenze nel futuro ma che non puoi più cambiare. È giusto così e devi accettarlo per affrontare le cose che invece hai davanti. Da autore è una cosa quasi naturale…
Non ti sei sentito sotto sentito una pressione? Non pensavi ai lettori?
No, francamente no. Sticazzi i lettori, nel senso buono ovviamente. In generale non mi sono mai fatto condizionare dai loro giudizi, non credo che sia salutare, anche perché un fumetto, esattamente come una nave, va portata da uno solo. Nel bene e nel male.
E non ti è mai capitato di pensare a che reazione avrebbero avuto davanti a quello che scrivevi?
Sì, certo, ma se ci penso, e ci penso costantemente, è perché ho sempre voluto offrire loro le storie migliori, e quindi, in questo caso, anche il finale migliore che fossi in grado di inventare. In questo senso non ho mai smesso di pensare a chi mi legge. Ed è questo il motivo per cui, ogni volta che c’era una vignetta o un’intera storia che non mi funzionava, prendevo tempo e la cambiavo.
Quando capisci che una decisione è quella buona?
La storia prima di tutto deve soddisfare me, è l’unica garanzia che posso offrire ai miei lettori. Anche perché, se dai retta ai lettori finisce male: chi tira la giacchetta da una parte, chi dall’altra, alla fine rischi di non sapere più da che parte girarti. Mi hanno raccontato che una cosa simile è successa a Nathan Never, che a un certo punto aveva cercato di seguire quello che i creatori pensavano volesse il pubblico, ma il risultato fu che si persero. Quindi, con tutto il rispetto per chi legge, quando entri di un fumetto è come se salissi su un aereo o su un nave, devi fidarti di chi ti sta portando, non è una cosa che si può fare coralmente. Fortunatamente l’arte non ha nulla a che vedere con la democrazia.
Avendo a che fare con una saga, come ti sei mosso in questi vent’anni quando avevi a che fare con scelte che sapevi ti avrebbero condizionato nel futuro?
Questo è il succo del mestiere di un narratore se intraprende una avventura lunga decenni. Per quanto mi riguarda quando chiudo una scena so già che è giusta. Ci pensa l’altra parte del mestiere a far tornare i conti quando quelle scelte ti si ripropongono.Questo finale, per esempio, va a usare degli strumenti narrativi particolare per assicurarsi che tutto tenesse. E infatti ci sono voluti dieci episodi per far quadrare tutto. Credo che poi ognuno abbia i suoi metodi. Io ho la fortuna di avere una sorta di superpotere: mi viene facile fare una sintesi dei livelli fronti narrativi e riuscire quali sono le scelte che li fanno quadrare tutti. L’ho fatto anche nella mia tesi di laurea.
Quando hai iniziato il mondo editoriale era completamente diverso, quanto è stato importante l’ecosistema delle edicole, per esempio?
Fondamentale. Assolutamente fondamentale, per me, ma per tutto il fumetto popolare italiano. Fino al 2010, quando è arrivata la legge — deleteria per tutti — che dava all’edicolante la libertà di scegliere cosa esporre, le edicole sono state un punto di riferimento importantissimo per i lettori, ma anche per gli editori, e l’ecosistema funzionava alla meraviglia.
Cosa è successo nel 2010?
Da quando è entrata in vigore questa legge praticamente tutte le serie a fumetti, chi più e chi meno, hanno cominciato a calare nelle vendite. Si sono perse una valanga di vendite singole, per esempio, quelle dei lettori casuali — il classico esempio è quello dell’edicola della stazione — che non trovando più molti fumetti, non li compravano. E quelle vendite perse alimentavano un circolo vizioso in cui l’editore, che vede i numeri abbassarsi, riduce le tirature, ma arrivando meno sul mercato ne vendeva sempre di meno e così via. È una piramide alla rovescia che spero si interrompa presto, perché la spirale è preoccupante.
Che futuro ha il fumetto popolare?
Io mi auguro che continuino a resistere le edicole e che a un certo punto si fermi questa sorta di emorragia di lettori che c’è ora. Un po’ perché mi auguro che si torni a leggere come si faceva una volta. Ora il lettore di fumetti tende a cercarli in libreria, forse perché fa più figo, ma soprattutto perché l’attenzione verso questa forma narrativa è aumentata molto negli ultimi anni. Speriamo che questa nuova cultura del fumetto torni a coinvolgere anche le edicole, se no temo che faremo al fine della Francia…
Com’è la situazione in Francia? Di solito la prendiamo come esempio positivo…
Per me il fumetto in Francia non sta facendo una bella fine, perché tu autore di fumetti francese o fai Asterix&Obelix, Lucky Luke e via dicendo, oppure è molto difficile sopravvivere, è una giungla in cui quasi nessuno riesce a vivere di solo fumetto.
Eppure è continuamente celebrato il sistema editoriale francese, sia per quanto riguarda i libri che per i fumetti…
Sì, ma chi lo osanna dovrebbe capire prima di tutto come funziona veramente. Se vai in Francia a fare un libro e non sei nessuno ti danno un anticipo che devi farti bastare per tutta la durata della produzione e poi devi sperare che venda. Se sbagli un libro rischi di finire la tua carriera, o di doverlo fare come hobby per tutta la vita. Ne conosco tantissime di persone che lavorano con la Francia, ma sono costretti a fare altri lavori, perché non ci campano.
Hai iniziato con l’autoproduzione, come vedi la scena del fumetto underground italiano ora?
Purtroppo riesco a seguirla poco perché da vent’anni sono incatenato a questa scrivania, sto riaprendo gli occhi solo adesso. Pensa che non riuscivo nemmeno ad andare alle fiere del fumetto. Però so che la scena resiste e che dà ottimi frutti. La mia speranza è che continui, anche perché mi sembra di percepire un certo paradosso: da una parte il settore è in crisi, dall’altra però c’è un fiorire di testate, di autori, di idee autoprodotte che è ricchissimo. Da lettore ne sono felicissimo, forse è da professionista che sono un po’ preoccupato perché mi sembra che la nave si sia spezzata in due.
Zerocalcare, Sio, Maicol&Mirco, Bevilacqua, come la vedi la nuova generazione di fumettisti dell’ironia?
Non voglio sentirmi padre di qualcuno, anche perché poi mia moglie giustamente mi mena, però credo che ci sia continuità, come sempre d’altronde nel mondo del fumetto. Anche loro sono cresciuti con determinati influssi — qualcuno di loro so per certo che era lettore di Rat-Man della prima ora, ma solo perché me l’ha confessato — che poi, nel loro lavoro di autori, rielaborano e modulano ogni giorno. È questo uno degli aspetti più belli del fumetto, che è un flusso continuo. Tra l’altro non mi sento di escludere il fatto che io stesso sia stato influenzato da loro, per questo ha poco senso parlare di padri e figli nel campo del fumetto, ma solo di grandissima contaminazione.
Che rapporto hai con il sarcasmo?
Io non mi ci rapporto, io cerco di costruire, ma forse perché sono di una generazione diversa. Devo dire che non invidio molto i giovani autori che si stanno formando ora, perché hanno a che fare con una società molto più allo sbando, più cattiva. Quindi da un certo punto di vista anche l’umorismo di questi tempi si è fatto più distruttivo, probabilmente per cercare di costruire qualcosa tocca prima distruggere. È il solito ciclo dei flussi e dei riflussi, speriamo solo di uscire il prima possibile da questo.
I supereroi che produciamo in Italia, dal tuo Rat Man a Paperinik fino al Jeeg Robot cinematografico sono sempre degli spaghetti superhero maldestri e un po’ sfigati. Come mai?
Credo che sia una tipicità tutta italiana. L’italiano tende a decostruire gli eroi, anche stranieri, un po’ come se, per sentirsi grande, dovesse prenderli in giro. Trovo che questo sia assolutamente italiano, fa parte del nostro DNA, della nostra storia. Se ci pensi, in Inghilterra, dove vengono da una storia di grandeur imperiale, viene fuori James Bond. Per non parlare dell’America. Noi invece abbiamo eroi che sono sempre fallibili, che sono buoni, ma che hanno sempre dei difetti. D’altronde non c’è scampo, se vai a raccontare a un italiano che c’è Superman a Parma mica ti crede. E ha ragione a non crederci, perché non esistono eroi tutti di un pezzo. Quando funzionano qui è perché sono stranieri. Superman non funzionerebbe mai, Jeeg Robot invece funziona molto bene proprio perché è un poveraccio.