A Hollywood (e all’America intera) l’Africa piace così tanto che ne vorrebbero un’altra. E, in un certo modo, se la stanno inventando, Paese per Paese. Nella realtà il continente ne ha già 55, ma i film americani (e anche il loro presidente) continuano a inventarne di nuovi.
Non ci vuole molto: basta trovare parole dal suono africaneggiante (magari con qualche “z”) e il gioco è fatto. Lo sanno gli amanti del film Il principe cerca moglie, dove viene raccontata un’inesistente Zamunda. Oppure il celebre Kundu Equatoriale, raccontato nella serie The West Wing e Newsroom. E perché, già che ci siamo, non ambientare tutto nell’Angola Ovest (Scandal)?
I viaggi nell’Africa immaginaria non si fermano qui. A guardar bene, sono più numerosi i Paesi africani finti rispetto a quelli veri: secondo la serie tv Mission: Impossible (quella che ha dato i natali ai film) c’è il feroce Bocamo, segnato dalle miniere d’oro e da un brutale regime di apartheid, poi la Ghalea, amica dei Paesi occidentali (e per questo molto stabile), non può mancare la Logosia, e nemmeno la Loumbuanda, vero e proprio inferno in terra dominato da una minoranza bianca e francofona che trae piacere dal mettere in schiavitù la maggioranza nera.
Ognuno ha la sua: nel film The Interpreter, la protagonista Nicole Kidman parla “ku”, una lingua immaginaria parlata in Matobo, uno Stato che si trova nello Zimbabwe, e che si ritrova in una puntata di 24: Redemption. Nemmeno James Bond sfugge alla febbre dell’Africa inventata, visto che in Casino Royale appare un improbabile Nambutu.
Le ragioni di questa invenzione dell’Africa sono varie. Culturali, senza dubbio. Ma anche diplomatiche: se nel film occorrono Paesi con governi crudeli che esercitano il potere in modo spietato, meglio evitare di urtare i nervi di qualche leader reale. Anche perché, ai fini della storia, l’esatta ubicazione dell’azione non è nemmeno necessaria: basta “un’Africa generica”, evocata più che citata. Il continente esiste, certo. Ma spesso è più un’idea che un fatto reale, un’immagine che permette di dissociarsi, in via temporanea, dalle nozioni (colpevolizzanti?) di povertà, guerre e carestie.