La minaccia nucleare della Corea del Nord è tornata di nuovo nei titoli di testa dei telegiornali, con il test missilistico del 29 agosto e quello nucleare del 3 settembre. Ma, come spesso accade quando si parla del Regno Eremita, molte cose restano circondate nel mistero.
Ad esempio: sappiamo che negli ultimi mesi la Corea del Nord ha aumentato di parecchio, e molto in fretta, le sue abilità nel campo dei missili. Non è del tutto chiaro, però, come abbia fatto. Oppure: sappiamo che, pochi giorni fa, la Corea del Nord ha compiuto un altro test nucleare (il sesto della sua storia). Ma non siamo certi del tipo di bomba che sia stata detonata.
E quindi: quanto è reale la minaccia nucleare della Corea del Nord? Lasciamo da parte le considerazioni diplomatiche e geopolitiche, e il fatto che la strategia del Paese asiatico segua una certa logica e sia tutt’altro che il frutto delle azioni di un pazzo – come a volte viene raffigurata la dittatura di Kim Jong-un. Dal punto di vista strettamente militare, come stanno le cose? Che cosa è in grado e non è in grado di fare la Corea del Nord, dopo il grande dispiego di potenza bellica degli ultimi giorni?
La Corea del Nord ha aumentato di parecchio, e molto in fretta, le sue abilità nel campo dei missili. Non è del tutto chiaro, però, come abbia fatto
Il primo punto fermo è che, nell’arco degli ultimi mesi, la Corea del Nord ha aumentato in modo molto rapido la sua capacità in campo missilistico: ha lanciato 21 missili in quattordici test a partire da febbraio.
Dopo parecchi fallimenti, negli ultimi due anni l’arsenale di Pyongyang si è arricchito di due nuovi modelli, tra cui soprattutto il missile balistico intercontinentale, o ICBM, Hwasong-14 (Hwasong è il nome coreano del pianeta Marte, letteralmente “stella di fuoco”). Gli ICBM sono in grado di spingersi ad altissime quote, perfino a livello orbitale, e di percorrere distanze superiori ai 5.500 chilometri.
La Corea del Nord ha testato con successo un ICBM appena due mesi fa, il 4 luglio, annunciando – con l’usuale esagerazione – che può arrivare «ovunque nel mondo» e scegliendo con cura una data per avere il massimo impatto, il Giorno dell’Indipendenza americano. Sicuramente Kim Jong-un va pazzo per i missili: nei suoi sei anni di regime ne ha lanciati molti di più di suo padre e suo nonno messi insieme.
Con i recenti test degli ICBM, gli esperti dicono che nessun Paese ha mai fatto progressi così grandi in tempi così stretti, dato che fino a poco tempo fa la Corea del Nord non era in possesso di missili a lungo raggio. È molto difficile che il Paese sia riuscito a sviluppare da solo le tecnologie necessarie.
Come è stato possibile, allora? Secondo uno studio recente, molti indizi puntano all’Ucraina. Si sa che i motori che spingono i missili nordcoreani sono una versione modificata di alcuni potenti modelli sovietici, in particolare uno noto con la sigla RD-250.
Non molte fabbriche nell’ex URSS li producevano. Una di queste, la Yuzhmash di Dnipro, ha costruito per molto tempo alcuni dei missili più grandi e potenti dell’arsenale sovietico e ha continuato a farlo per la Russia. Ma negli ultimi tempi, dopo la fine della presidenza del filo-russo Viktor Yanukovich, ha cominciato a passarsela male: i russi hanno cancellato gli ordini e il complesso industriale rimane sottoutilizzato e colpito da problemi economici.
Non è chiaro come i nordcoreani abbiano avuto la tecnologia che cercavano, con quali intermediari e se con la collaborazione di qualcuno in Ucraina. Si sa però che già nel 2011 avevano già provato ad ottenere nel Paese ex sovietico progetti e informazioni tecniche. Due agenti nordcoreani vennero arrestati in Ucraina e condannati nel 2012 a otto anni di carcere. Nel caos ucraino degli ultimi anni, pare che siano riusciti ad avere maggior fortuna.
Perché è un problema?
Il fatto che la Corea del Nord sia riuscita ad entrare in possesso di ICBM non è molto rassicurante, dal punto di vista puramente militare. Gli ICBM possono essere lanciati in meno di un’ora con dei grossi veicoli mobili noti come TEL (Transporter Erector Launcher), che fino all’uso possono restare nascosti nelle basi scavate sotto le montagne.
Fermare un missile intercontinentale, infatti, è paragonato dagli esperti a colpire un proiettile con un altro proiettile
Quell’ora di tempo è anche il momento migliore per provare a fermare un eventuale lancio. Dopo, infatti, intercettare un missile intercontinentale è davvero molto difficile. Fermare un ICBM è paragonato spesso a colpire un proiettile con un altro proiettile.
Una volta sulla rampa di lancio, infatti, i motori accelerano il missile fino a 6/7 km al secondo; il missile sale in una traiettoria molto ripida fino a centinaia di chilometri di altezza ed entra in una traiettoria parabolica verso l’obiettivo. La testata, che contiene la bomba nucleare, si stacca quindi dal resto e comincia la sua discesa. Tutto avviene in poche decine di minuti: in questo stretto lasso di tempo bisogna accorgersi che il missile è stato lanciato, calcolare la sua traiettoria e rispondere in modo adeguato.
Esistono, naturalmente, diversi sistemi che provano a fare tutto questo. Il sistema THAAD, ad esempio, prodotto dagli Stati Uniti a partire dal 2008 e impiegato in Corea del Sud, punta a intercettare i missili nella loro fase di rientro, cioè mentre stanno scendendo sul bersaglio: ma è pensato per missili con gittata inferiore rispetto agli ICBM. Lo stesso vale per il sistema Aegis montato sulle navi giapponesi e statunitensi, che può in teoria colpire oggetti nella loro fase orbitale ed è stato in grado di abbattere un satellite malfunzionante nel 2008 – ma non è pensato in modo specifico per i missili intercontinentali.
In concreto, a proteggere gli Stati Uniti dagli ICBM ci sono 30 missili anti-balistici del sistema GMD in due basi in Alaska e California, sostanzialmente missili pensati per andare a colpire altri missili. Il problema principale, però, è che il loro livello di successo nei test è stato abbastanza scarso.
Negli ultimi anni si è parlato molto anche di altri metodi più futuristici, come l’utilizzo del laser, ma l’impressione è che la migliore difesa venga dalla prevenzione e dall’eventuale rappresaglia. Vale la pena di chiedersi anche: la Corea del Nord ha qualcosa da metterci, su quei missili?
La Corea ha la bomba H?
Circa un minuto dopo mezzogiorno del 3 settembre 2017, ora di Pyongyang, una stazione sismica a Mudanjiang, nella Cina nordorientale, ha rilevato onde compatibili con un evento equivalente a un terremoto di magnitudo 6.3 (la magnitudo è stata rivista alcune volte dopo le prime stime iniziali).
Nell’arco di una ventina di minuti, le onde sismiche erano state rilevate dalle stazioni di mezzo mondo, compresa l’Italia. Non si trattava di movimenti tellurici, però, ma di un’esplosione avvenuta nei pressi del sito di Punggye-ri, in un’area montagnosa della Corea del Nord: il sito utilizzato per tutti i sei test nucleari nordcoreani – e attualmente l’unico sito di questo genere attivo nel mondo.
Di lì a poco, i media del regime hanno annunciato trionfalmente la detonazione di una bomba all’idrogeno dalla potenza «senza precedenti».
La Corea del Nord non è nuova a proclami del genere: la prima bomba H, stando al regime, sarebbe stata testata nel gennaio 2016. Questa volta, però, un indizio fa pensare che la bomba possa essere davvero di un nuovo tipo.
Le informazioni raccolte dai sismografi e con gli altri sistemi di rilevamento avevano finora limitato la potenza delle bombe nordcoreane a una ventina di kilotoni (un kilotone equivale al potere esplosivo di circa 100 tonnellate di TNT), pressappoco come quelle che furono sganciate nel 1945 su Hiroshima e Nagasaki.
Questa volta, invece, l’energia rilasciata sarebbe stata molto più grande: secondo alcune stime, circa dieci volte di più. L’ente norvegese Norsar, che si occupa anche del rilevamento dei test nucleari con gli strumenti sismologici, ha rilasciato un grafico molto chiaro che mette a confronto le onde causate dai sei test nordcoreani. L’ultimo è chiaramente molto più potente.
Secondo gli esperti, una bomba così potrebbe avere la potenza di circa 100 kt. Dato che le bombe termonucleari (o all’idrogeno, o bombe H) rilasciano potenzialmente molta più energia delle bombe atomiche a fissione, la possibilità che si tratti davvero di una bomba H è molto più alta.
Ma non tutti sono d’accordo su questa interpretazione dei dati. Intervistato da Radio3 Scienza, il professor Wolfango Plastino dell’Università di Roma Tre, ed esperto nei sistemi di rilevamento delle esplosioni nucleari, ha detto che motivi tecnici fanno ritenere un’esplosione di 100 kt «poco probabile».
Le onde registrate dai sismografi non permettono di capire il tipo di bomba. Per arrivare a più certezza, bisognerà aspettare che le stazioni di rilevamento finiscano le analisi alla ricerca di radionuclidi dispersi nell’atmosfera. Alcune sostanze radioattive particolari, come lo xenon, sono la “firma” dell’esplosione di una bomba H, e se qualche stazione di rilevamento atmosferico dell’organismo di controllo internazionale CTBTO le rileverà ci saranno molti meno dubbi: dopo il test di gennaio 2016, ad esempio, non se ne trovò traccia. Nel frattempo, alcune analisi satellitari hanno mostrato parecchie frane nel terreno intorno al luogo dell’ultimo test.
L’energia rilasciata nell’ultimo test è stata circa dieci volte maggiore rispetto ai precedenti: il principale indizio che fa parlare di bomba H
Ad ogni modo, che la Corea del Nord sia in possesso di testate nucleari non è una novità: l’interesse dei Kim a dotarsi della bomba è molto antico – risale almeno agli anni Sessanta – e già durante la presidenza di George Bush padre diventò chiaro che il paese stava lavorando concretamente per ottenerne una.
Il mondo se ne accorse definitivamente il 9 ottobre del 2006, quando la Corea del Nord effettuò il suo primo test nucleare sotterraneo: ad oggi, è l’ultimo paese a essere entrato nel gruppo dei nove paesi in possesso di testate.
Qualche buona notizia, per modo di dire
La Corea del Nord ha quindi i missili e un arsenale nucleare. Non solo: ai primi di agosto è emerso un rapporto statunitense secondo il quale i nordcoreani sarebbero anche riusciti a miniaturizzare una testata abbastanza da poterla mettere su un missile balistico intercontinentale.
Ma non è ancora il caso di farsi prendere dal panico. Per prima cosa, nonostante i primi test, non è certo che la Corea del Nord sia davvero in grado di colpire gli Stati Uniti, perché dopotutto le prove di lancio servono a migliorare una tecnologia non ancora perfetta.
Non è poi detto che la Corea del Nord possieda abbastanza testate e abbastanza piccole per lanciare un attacco con qualche possibilità di successo, visto che bisogna attendersi un certo numero di lanci fallimentari e di testate che mancano il bersaglio. Le stime sull’entità dell’arsenale in possesso del regime variano molto, ma vanno di solito dalle 30 alle 60.
Gli esperti pensano comunque che il regime di Kim Jong-un non sia troppo lontano dai traguardi tecnici necessari a lanciare un attacco contro gli Stati Uniti con buone probabilità di riuscita. Quando se ne avrà la certezza – che per ora non è ancora definitiva – la comunità internazionale e le potenze regionali dovranno pensare a come gestire una situazione pericolosa che si è costruita con lentezza, test dopo test, annuncio dopo annuncio. La vicenda nordcoreana mette il mondo davanti alla più tragica conseguenza delle armi nucleari: la possibilità che la tecnologia più distruttiva pensata dall’uomo finisca in mano proprio al Paese più misterioso e isolato di tutti.