Perché il Movimento Cinque Stelle vuole perdere le prossime elezioni

Sono finiti i tempi in cui vincere era l’unica cosa che contava. Da Rimini arriva l’inversione di rotta, che Grillo aveva preannunciato a mezza bocca già da qualche mese: l’obiettivo è diventare il “grande partito d’opposizione”, come il Pci della Prima Repubblica

ALBERTO PIZZOLI / AFP

È mancato qualcosa sul palco del Movimento Cinque Stelle a Rimini, e questo “qualcosa” è più importante del moltissimo che abbiamo visto in tutti i telegiornali, dal discorso di investitura di Luigi Di Maio al lancio di banconote di Beppe Grillo ai giornalisti. È mancato il “vincere o morire” che ha fatto da sottofondo a tutte le campagne elettorali importanti del Movimento, e specialmente all’ultima consultazione di portata nazionale – le Europee del 2014 – quando il leader Cinque Stelle pose apertamente l’alternativa: o siamo primi «o stavolta davvero me ne vado a casa, e non scherzo».

I tempi del massimalismo grillino sono finiti, e se si cominciasse a guardare il M5S come un partito normale senza cedere alla tentazione di raccontarne solo il folklore, gli errori, le stupidate, si potrebbero intravedere gli indizi di un assestamento piuttosto significativo. Grillo che all’ultima Marcia di Assisi dice «a me non interessa andare al governo, a me interessa che i cittadini abbiano gli strumenti per poter incidere sulle decisioni del Paese». Grillo che secondo indiscrezioni confida a un amico che «Il M5S deve essere come il Pci, un grande partito di opposizione». Grillo che incorona Luigi Di Maio e tiene nelle retrovie i Roberto Fico e gli Alessandro Di Battista, i garibaldini che gli saranno necessari nel caso l’obiettivo Palazzo Chigi sfuggisse.

L’idea del partito di lotta e di governo in Italia è antica e l’hanno praticata quasi tutti tranne la Dc. Risale più o meno al ’75 e all’intuizione del comunista (migliorista) Gianni Cervetti che teorizzò l’operazione di fuoriuscita del Pci dal tunnel dell’opposizione. Le destre e la Lega compirono lo stesso tragitto, dalle piazze alle poltrone, all’inizio degli anni ’90. Al M5S tocca adesso lavorare nella direzione opposta, e cioè disegnare un possibile futuro di lotta per un movimento che si regge soprattutto sulla suggestione della vittoria alle porte, imminente, inevitabile, sicura, perché “il popolo è con noi” e “i partiti sono morti”.

I tempi del massimalismo grillino sono finiti, e se si cominciasse a guardare il M5S come un partito normale si potrebbero intravedere gli indizi di un assestamento piuttosto significativo. Grillo che all’ultima Marcia di Assisi dice «a me non interessa andare al governo, a me interessa che i cittadini abbiano gli strumenti per poter incidere sulle decisioni del Paese». Grillo che secondo indiscrezioni confida a un amico che «Il M5S deve essere come il Pci, un grande partito di opposizione»

I capi del Movimento, tra l’altro, sanno bene che il mondo Cinque Stelle dà il meglio di se stesso quando è all’opposizione: l’esperienza romana (ma non solo) insegna. E nella mancata competizione dei “big” per la candidatura a premier forse c’è anche questo: l’idea che Di Maio si sia preso un’orribile gatta da pelare, perdente in ogni caso. Semmai arrivasse primo, dovrà sobbarcarsi senza alcuna speranza di successo le ritualità del “presidente incaricato” in un sistema proporzionale, roba da Forlani, da De Mita, roba da Cencelli, che solo a provarci rende impopolari. Se arriverà secondo, dovrà caricarsi il peso della sconfitta oltreché il marchio del governista velleitario. E tutto questo dopo aver affrontato la via crucis della campagna elettorale, la ricerca della “squadra” che mette i brividi solo a pensarci, le beghe di periferia sulle candidature, le insidie dei congiuntivi in tv.

Insomma, meglio tenersi fuori dalla partita e conservarsi “puri” per quando il Movimento dovrà avviare il suo secondo tempo, la partita dell’opposizione contro un probabile governo di larghe intese: suggestiva, divertente, fatta su misura per il popolo grillino. Senza rischi per l’immagine dei ragazzi irresistibili che hanno le ricette giuste per ogni cosa, dal riscaldamento globale al reddito di cittadinanza, proprio come le antiche opposizioni della Prima Repubblica avevano la risposta esatta per tutto, dalla crisi di Cuba ai problemi della scala mobile, dalla fame nel Bangladesh ai contratti integrativi in Fiat.

A Rimini, in definitiva, il “vincere o morire” non è mancato a caso. “Se non si vince, va benissimo”, è l’immaginabile e sacrosanto pensiero di molti. Un’idea peraltro funzionale alle regole base della democrazia, dove un’opposizione forte e battagliera è l’indispensabile contrappeso di ogni maggioranza, e il suo controllo sugli atti del Parlamento è la principale garanzia di trasparenza e rispetto delle regole. Ai delusi si potrà dire con Bakunin che “la rivoluzione di solito è per tre quarti fantasia e per un quarto realtà”, una consolazione che funziona sempre.

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