Dunque Virginia Raggi potrebbe andare a processo, ma per un’accusa decisamente minimale (falso, senza dolo) rispetto al colossale putiferio che scoppiò a Roma all’epoca delle prime nomine della sindaca.
La parte più consistente dell’inchiesta, l’abuso d’ufficio legato alla presunta irregolarità di alcuni incarichi con relativi e lautissimi compensi, è finita in archivio, così come le analoghe contestazioni rivolte ai precedenti sindaci, Ignazio Marino e Gianni Alemanno.
Il paradosso è che sulle accuse ora mandate al macero è stata costruita quasi per intero l’azione politica delle tre principali forze cittadine nell’ultimo decennio: prima il “Daje ad Alemanno” del Cinque Stelle e della sinistra; poi il “Daje a Marino” del Cinque Stelle e della destra; infine il “Daje alla Raggi” della destra e della sinistra. Ed eccole lì, quelle campagne, quei tumultuosi duelli televisivi, quei titoli-choc, quei retroscena al vetriolo, quelle accuse da Savonarola, quelle intemerate contro i pm e a favore dei pm, quegli strilli, quei post di fuoco. Cenere, buona per la spazzatura.
la politica fondata sulla speranza di uccidere l’avversario in un corridoio della Procura è inutile alla città ma anche e soprattutto ai partiti.
Raggi: archiviata. Marino: archiviato. Alemanno: archiviato. Bisognerebbe farci un 6×3 e attaccarlo sugli itinerari dei maggiorenti cittadini, compreso i titolari di cattedre giornalistiche, per ricordare a tutti che la politica fondata sulla speranza di uccidere l’avversario in un corridoio della Procura è inutile alla città ma anche e soprattutto ai partiti. Non porta né consenso né partecipazione, ma solo un desolato alzar di spalle – «Sono tutti uguali!!!» che è l’esatto contrario di ciò che sarebbe auspicabile: la capacità di distinguere tra buone e cattive amministrazioni e di votare di conseguenza.
Lavorare di risulta alla magistratura è da due lustri la componente centrale del poraccismo che ha stravolto le classi dirigenti cittadine. E passi per le cosiddette “grandi inchieste”, gli scandali di Serie A, ma qui si parla di fango in fondo al barile: scontrini, divieti di sosta, bugie stupide raccontate nelle interviste, gruppi whapp in cui si parla male di qualcuno, oscure procedure comunali ritenute all’improvviso illegittime.
In un mondo normale queste cose resterebbero nel retrobottega del dibattito pubblico, che parlerebbe d’altro, e nel caso farebbe a pugni su altro. Magari la gestione delle municipalizzate. Magari l’efficienza degli uffici preposti a case e asili nidi. Magari ogni diversa cosa – in questa città non funziona quasi niente – dai bandi per l’uso degli spazi pubblici in città fino ai progetti per la Fiera di Roma, quella vecchia e quella nuova, o per l’avvenieristica Nuvola che nessuno sa che tubo farci.
E invece abbiamo litigato sulle biografie dei fratelli Marra, e in precedenza della cena di Santo Stefano (spaghetti all’aragosta) al Vero Girarrosto Toscano, e ancora prima delle autentiche previsioni meteo in materia di neve (35 mm o 35 cm?) e adesso siamo finiti qui: la Raggi promosse il signor Renato a capo del Turismo di testa sua o sotto altrui suggerimento? “Chissenegfrega”, pensa il cittadino medio che sta aspettando il 64 da venti minuti, e però sbaglia: alla politica questo pare importantissimo, prioritario. Ieri in Consiglio comunale c’è stato un gran casino perchè l’opposizione voleva aprire un dibattito e la maggioranza no. Strilli, microfoni silenziati, rabbia, titoli apodittici.
Per dovere d’ufficio bisognerà comunque dire che questo tipo di deriva – scambiare le inchieste per atti di qualità politica, e viceversa – ha tratto una speciale linfa dalla retorica grillina dell’Honestà e del Cacciamo Gli Indagati, e valutare di conseguenza che Virginia Raggi si è in gran parte impiccata alla corda intrecciata dai suoi amici. La (possibile) bugia raccontata alla città sul come e chi abbia scelto un dirigente diventa intollerabile menzogna se contestualizzata nella retorica dell’iper-moralismo Cinque Stelle che ha sempre promesso: “Noi non vi mentiremo mai”. Magari Virginia una piccola fesseria l’ha detta. Magari era pure necessaria, o forse no. In ogni caso, senza tanta grancassa sulla diversità antropologica dei grillini e sull’illibatezza congenita della loro stirpe, i danni sarebbero stati più limitati. E la città avrebbe potuto occuparsi di cose più serie.