Nelle ultime settimane, con l’anticipazione delle proposte elettorali di politica economica di Berlusconi e Renzi, si è aperto un piccolo dibattito su quella che continua da decenni a essere una delle principali urgenze del Paese: la riduzione del debito pubblico.
In un recente intervento sul Sole24Ore Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli lamentano giustamente che da nessuno schieramento politico – o quasi, ma ci torneremo a breve – vengano avanzate soluzioni per l’abbattimento del “macigno”, per usare la felice espressione di Carlo Cottarelli. Il problema del debito non è affatto sparito, ma viene invece venduto come una miracolosa opportunità di crescita, trattando così gli elettori da fanciulli imbambolati. Abbiamo infatti Berlusconi che propone l’introduzione di una nuova moneta nazionale, emessa dal Tesoro, mentre per Matteo Renzi la formula magica per la crescita è un deficit assai prossimo o pari al 3% per tutta la prossima legislatura. Sia Berlusconi che Renzi però si guardano bene dal dire che sono entrambe proposte che, se attuate, fanno aumentare il debito pubblico.
Dunque entrambe le proposte (doppia moneta e deficit persistente) sembrano suggerire una comoda via d’uscita al problema dei fiacchi tassi di crescita dell’economia italiana. Ma se è tutto così facile, allora perché queste ricette miracolose non sono state già messe in pratica? Perché se una cosa è troppo bella per essere vera, quasi sempre non è vera. Aumentare il disavanzo fa aumentare il debito. Questo nuovo debito dovrebbe essere finanziato in qualche modo: chi sarebbe disposto a finanziarlo? Se una politica di bilancio permanentemente e ampiamente in deficit nel lungo termine non è sostenibile per nessun paese al mondo, ciò è ancor più vero per l’Italia, per la quale, nelle condizioni economico finanziarie in cui si trova, non sarebbe sostenibile neanche nel breve periodo. Basta infatti ragionare su cosa accadrebbe una volta che una delle due proposte fosse attuata – le trattiamo volutamente alla stessa stregua, dato che le conseguenze dal punto di vista contabile ed economico sarebbero le stesse.
A meno di ipotizzare tassi di crescita dell’economia italiana ai livelli della ricostruzione nel dopoguerra, aumentare il deficit vorrebbe dire aumentare il debito pubblico (misurato sul Pil), non solo nel medio-lungo termine, ma anche nel breve, con la conseguenza di aumentare l’esposizione del nostro paese al rischio di una crisi di fiducia dei mercati come quella del 2011-2012 – che, meglio ricordarlo, c’è costata lacrime e sangue.
Siamo purtroppo un Paese dalla memoria corta ed è sbalorditivo dover constatare la rimozione nel dibattito pubblico e nella memoria collettiva dell’asprezza di quella crisi. E colpisce anche quanto facilmente ci dimentichiamo che quella crisi avrebbe potuto avere un finale ben peggiore senza l’intervento della Bce e l’adozione della riforma Fornero, che ha attenuato la pressione degli impegni pensionistici sulla spesa pubblica nei prossimi decenni.
Ma soprattutto se il sostegno della Bce verrà meno in un futuro più o meno prossimo, il tentativo di attuare una politica di bilancio così irresponsabile determinerebbe automaticamente una nuova tempesta perfetta, con un incremento forte e repentino dei rendimenti sui titoli di Stato e la necessità di drastiche misure di correzione. Ecco quindi che il miracolo della crescita in deficit genererebbe automaticamente una forte destabilizzazione per l’Italia, mettendone in un sol colpo a rischio sia la credibilità internazionale che i conti pubblici.
Da un lato, bisogna ridurre le spese (agevolazioni) fiscali, che nei casi migliori risultano inutili e in quelli peggiori distorsivi o dannosi all’ambiente. Dall’altro, va rapidamente avviata una coraggiosa stagione di liberalizzazione dei servizi pubblici, in particolare quelli relativi ai trasporti pubblici locali, così come chiesto di fare dai radicali attraverso il referendum di Roma su Atac
Questo significa che la politica di bilancio sarà sempre e costantemente sul “sentiero stretto” descritto da Piercarlo Padoan? Non necessariamente. Mettere i conti in ordine, ovvero tagliare la spesa e ridurre il debito, è il prerequisito per un doveroso taglio delle tasse, che andrebbe fatto in modo drastico, abbassando le aliquote e riducendone il numero.
È quindi auspicabile che i leader dei principali partiti annuncino fin d’ora un impegno credibile al congelamento della spesa pubblica per tutta la durata della prossima legislatura, applicando sul serio le raccomandazioni di Cottarelli e Perotti per una vera spending review.
Noi pensiamo sia fondamentale insistere soprattutto su due grandi voci di spesa. Da un lato, bisogna ridurre le spese (agevolazioni) fiscali, che nei casi migliori risultano inutili e in quelli peggiori distorsivi o dannosi all’ambiente. Dall’altro, va rapidamente avviata una coraggiosa stagione di liberalizzazione dei servizi pubblici, in particolare quelli relativi ai trasporti pubblici locali, così come chiesto di fare dai radicali attraverso il referendum di Roma su Atac. La liberalizzazione di questo settore, oltre a fornire un incremento significativo di efficienza e qualità del servizio per gli utenti, rappresenterebbe anche una vera riforma strutturale (una di quelle ripetutamente chieste da Mario Draghi) e un utile meccanismo di contenimento della spesa pubblica.
Il debito pubblico in rapporto al Pil non è mai stato così alto dall’unità d’Italia. È arrivato il momento in cui tutti prendano consapevolezza del fatto che se si vuol dare un futuro a questo Paese, e in particolare ai giovani, è proprio dalla riduzione del debito che occorre partire. Altrimenti, ancora una volta i nostri figli si troveranno tra qualche anno a pagare per gli errori commessi dei padri, anche se quarantenni e, a parole, rottamatori.