Verrà un giorno in cui brasiliano e portoghese saranno due lingue distinte. Più o meno come italiano e spagnolo, o come danese e tedesco. Ci vorrà un secolo, forse due. Ma le premesse per una separazione più o meno consensuale ci sono tutte.
Distanza geografica, prima di tutto, ma anche lontananza culturale. Anche Usa e Gran Bretagna sono divise dall’Oceano, ma mantengono rapporti stretti e complessi: gli americani hanno da poco, e solo in parte, superato un antico complesso di inferiorità nei confronti dell’inglese britannico, considerato più ricercato e raffinato. Gli inglesi, dal canto loro, nonostante difendano con vigore la loro lingua, sono sommersi (come tutti, del resto), da opere e prodotti americani. Serie tv, film, libri, canzoni. Con annessi modi di dire, slang ed espressioni culturali. Risultato: entrambi si capiscono alla grande.
In Brasile no. I contatti con la antica madrepatria sono sporadici e rarissimi. I brasiliani non ricevono prodotti culturali portoghesi, non vedono i loro film, non sentono la loro musica, non ne subiscono l’influenza in nessun modo. E lo stesso accade dall’altra parte: anche i portoghesi evitano di lasciarsi influenzare dai cugini d’oltreoceano. Risultato: nessuno segue le evoluzioni linguistiche dell’altro e, piano piano, si capiscono sempre meno.
Del resto le differenze, se pure non arrivano a livello morfosintattico, sono già evidenti nel lessico e nella pronuncia. Una parola come “presidente” in portoghese viene pronunciata [pɾɨziˈdẽt(ɨ)], più o meno prizidenti, mentre in Brasile diventa [pɾeziˈdẽtᶴi], cioè prezidenci. Lo stesso avviene anche con la “d” intervocalica, cioè tra due vocali. Diventa uguale al suono “j”. Non solo: la “l” dopo vocale somiglia sempre più a una “u”, e per questo “Ronaldo” diventa “Ronaudo” e Ronaldinho suona più come “Ronaujigno” – per non parlare del fatto che in alcuni dialetti brasiliani il suono “r” iniziale e finale diventa una sferragliante “h”.
Gli stessi brasiliani vivono con difficoltà la loro situazione linguistica: da un lato c’è una variante popolare, più semplice e diffusa, che viene adottata nei testi informali. Dall’altro c’è una variante formale, scritta e basata sulla grammatica portoghese del XIX secolo, che viene adoperata nei contesti più seri e che viene insegnata a scuola, spesso da professori che si servono della prima variante per spiegare le caratteristiche della seconda. In tutto questo, chi ha tempo per preoccuparsi anche di come parlano quelli di là dall’Oceano?
Il risultato è che non ci si capisce già più. Non sono pochi gli aneddoti che lo testimoniano. Qui c’è chi racconta di un convegno tra portoghesi e brasiliani che si è risolto con la decisione di adottare lo spagnolo come lingua franca. E qui dei problemi incontrati sul lavoro tra colleghi che provengono dalle due diverse sponde dell’Oceano. Basterà che, prima o poi, il governo brasiliano ufficializzi un sistema di scrittura diverso (cioè più vicino al parlato)