Volete un Emanuelli? lasciate stare gli incesti melensi di Roberto, buttatevi nei reportage di Enrico

"E allora baciami" di Roberto Emanuelli è un orgasmo di buoni sentimenti, specie di infelice incrocio tra Selen e "Va dove ti porta il cuore". Enrico Emanuelli invece è stato un fine scrittore, comprate il suo romanzo caustico, in ritmo bebop "Uno di New York"

Il bastone. Il libro, in realtà, tolto l’afrodisiaco incipit, roba da stendere uno stallone per eccesso di melassa (“Il cuore delle persone non è qualcosa che puoi comprendere solo perché dici di volerlo fare… serve poesia, tanta poesia. Ché la vita di quelli che amiamo ha bisogno di musica e carezze”), inizia pure bene. Leonardo, “meccanico figo” di 38 anni che ha avuto “tantissime donne negli ultimi sedici”, dai variopinti gusti musicali – ascolta di tutto, da Marco Mengoni a Tiziano Ferro e Mauro Ermanno Giovanardi – e libreschi – legge un patchwork di minchiate, da Paolo Giordano a Naomi Klein, da Gibran alle 50 sfumature di noia al Piccolo principe becca la figlia diciassettenne, Laura, che si masturba. La figlia, per altro, lo scopriamo poco dopo, è una discreta femmina: “Indossa dei leggins neri e una canottiera bianca, leggerissima, sotto la quale si intuisce il seno piuttosto prorompente. Scalza. È bellissima, mora e con la carnagione scura e dorata”. A questo punto, lo scaltro romanziere che non deve chiedere mai la patente alla morale corrente, avrebbe descritto l’unione, incestuosa, bastarda, tra babbo e bella figliola. D’altronde, il Marchese De Sade – citazione colta – riteneva che i padri dovessero sverginare le figlie. Figuriamoci. Leonardo resta inebetito, la figlia si arrabbia, “chiudi quella cazzo di porta”, e lui quella cazzo di porta la chiude. Insieme alla porta, però, si chiude definitivamente, per noi lettori, la possibilità di leggere qualcosa di davvero eccitante. Al contrario, siamo costretti a sorbirci per quasi 300 pagine il piagnisteo di Leonardo, fustacchione tontolone – a pagina 28 si tromba svogliatamente una Francesca qualunque che mentre viene “urla forte” e fa “Oh, sì! Oh, sììì!”, sai che fantasia – Amleto di zucchero filato, che non ha più la sua Angela, la madre della figlia a cui piace da matti masturbarsi. Il libro di Roberto Emanuelli, in effetti, è un orgasmo di buoni sentimenti (i capitoli sono impacchettati da titoli come E poi servono abbracci, di quelli che ti scaldano il cuore…, Ti penso. Mi manchi. Ti amo, Mi piaci), un domino morboso di masturbazioni mentali, di asfissianti aforismi (“Inseguiamo chi non ci degna di uno sguardo, chi non ci restituisce niente di quello che diamo”; “La verità è una bugia mascherata a cui cambiamo trucco e vestito in base alla festa”; “lo so che per me è fare l’amore, mentre per lui è scopare”), che culmina nell’interrogativo millenario – dopo aver sfogliato tutto l’album dei cliché – “Secondo te c’è davvero tutta questa differenza abissale fra uomini e donne?”. Per la cronaca, la risposta è questa: “una donna sa aspettare anche tutta una vita un solo abbraccio, mentre molti uomini, se non ottengono subito quello che vogliono, spariscono dopo il primo appuntamento”. A questo punto, Winnie the Pooh, annegato in un Niagara di miele, si trasforma in Rambo, gli girano le palle di peluche pure a lui. Troppo facile, però, giocare a sfottere il libro, inesistente, di Emanuelli. Il libro, infatti, vende di brutto, l’Italia, evidentemente, è piena di quarantenni che vogliono farsi fottere da un meccanico dal cuore d’oro, che ha i muscoli al posto giusto ed è pure sensibile, ha il cazzo buono e la testa fina e non è una testa di cazzo. Nel 1981 Valerio Zurlini diagnosticò la fine del cinema italiano. Causa? “Il pubblico ha bisogno di ridere, di eccitarsi”. Ergo: l’Italia “ha perduto la sua lingua” e gli italiani “sono diventati imbecilli”. Ora, una manciata di decenni dopo, gli italiani sono diventati degli australopitechi sentimentali. Non si capisce, altrimenti, perché circoli in libreria questo romanzo, specie di infelice incrocio tra Selen e Va dove ti porta il cuore, un Master Chef delle emozioni, e le belle fanciulle non gli preferiscano i baci sinistri di Vronskij (Anna Karenina), le labirintiche malizie della marchesa de Merteuil (Le relazioni pericolose), le algide perversioni di Jun’ichiro Tanizaki (leggetevi almeno La chiave). Non basta accorgersi di un tramonto e dire ‘che bello’ per essere uno scrittore: bisogna saper costruire un mondo, e trapiantare una galassia nel petto di una vergine. Care lettrici di Emanuelli, dopo la liberazione della vagina, è ora di far funzionare la testa, leggete altro.

Roberto Emanuelli, E allora baciami, Rizzoli 2017, pp.308, euro 17,50

La carota. Il mondo dell’editoria italiana è lo specchio dell’incuria culturale del Paese. Mentre Roberto Emanuelli scala le vette delle classifiche di vendita, nessuno ricorda il genio di Enrico Emanuelli, l’Emanuelli quello giusto, l’ottimo giornalista, il grande scrittore. Morto 50 anni fa, nel luglio del 1967, Emanuelli è stato inviato speciale a La Stampa e redattore della pagina culturale del Corriere della Sera. Tutto cominciò, però, con un romanzo, Memolo, pubblicato, con intraprendente precocità, a 20 anni. Giuseppe Canepa, direttore de Il Lavoro di Genova, intuì subito il talento giornalistico di Emanuelli sotto la scorza del narratore: gli fece un contratto e lo spedì prima in Russia, su una petroliera, poi in Spagna. Fu il principio di una carriera da giramondo che gli fruttò una manciata di libri-reportage importanti, come Il pianeta Russia (1952), Giornale indiano (1955), La Cina è vicina (1957). Autore di una decina di romanzi, installato tra i protagonisti della narrativa italiana del dopoguerra, oggi di Emanuelli, in libreria, c’è nulla o quasi. L’editore Interlinea – viva i piccoli, che reggono le sorti dell’editoria nostra – ha ripubblicato, con pensiero di Eugenio Montale, Uno di New York (1959), romanzo caustico, in ritmo bebop, che racconta il viaggio di un pittore che ha fatto successo negli States orientando il talento verso i desideri del mercato – si è imbarbarito facendo ritratti di uomini straricchi – nella provincia natia, italiana. “Il più bel libro di Enrico Emanuelli, di gran lunga il più bello, molto bello in assoluto” (così Guido Piovene) uscì postumo, per Feltrinelli, nel 1968, s’intitola Curriculum mortis ed è uno dei capolavori sotterranei e incompresi della letteratura italiana recente, ovviamente introvabile, non lo stampa più nessuno. Il romanzo, sghembo, che mescola le inquietudini di Joseph Conrad alle allucinazioni di Philip K. Dick, parte con 30 pagine di poema in prosa ubriaco, ambientato negli Usa, tra domande morbose (“Tenerezza per l’umanità o soltanto per me?”) e atti estremi (“Tutti, in quell’orlo di luce tra il giorno e la notte, vogliono confessarsi, distruggersi e rinascere”). Il resto – 120 pagine – sono le annotazioni al poema, dove Emanuelli, con la bianca veggenza di chi conosce ogni dolore e lo ha schedato e amato, ci porta da Cambridge a Barcellona, da Buenos Aires – al cospetto del generale Peròn – a New Orleans, e poi “oltre il circolo polare artico” e ad Axum e in India e a Shangai, ripiegando in un libro piccolo così la possibilità di altri cento e cento romanzi. Chi sono gli scrittori, infine? Emanuelli ce lo dice scrivendo dal Marocco. “Gli intermediari fra il giorno e la notte, coloro che concludono il tempo della luce e conducono i loro concittadini verso il tempo delle tenebre, spadroneggiando con antichi espedienti”. La parola, in effetti, è fuoco in marcia.

Enrico Emanuelli, Uno di New York, Interlinea 2017, pp.176, euro 14,00

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