Apatici e un po’ mafiosi: perché è giusto discriminare i terroni

La presunta ”invasione” dei migranti fa passare in secondo piano il conflitto Nord-Sud. Quello tra terroni e polentoni. Ed è un errore. Perché la vera risorsa culturale è considerare l”Italia un insieme di tribù. Diverse

Il vero dramma è l’assenza di peso che non ti permette di fare da contrappeso. Entri nei negozi, enfatizzi la tua calata del Sud e almeno qui a Milano non succede niente, al massimo ti si guarda con un sorriso bello. E non va bene. Certi addirittura dopo un quarto d’ora di parole hanno già un’ombra del tuo accento. Non va per niente bene.

Entri in un negozio di musica a prenderti le corde per una chitarra parti diretto «scusati, m’i ‘i dati i cordi p’a chitarra lettrica, pigghjiatimi ‘i 010, jamu» nel dialetto più stretto, e il commesso, imperturbato, si gira e prende quanto richiesto. Non sbaglia. E non va bene, non va per niente bene.

Anche il referendum nel Lombardo/Veneto, al di là della sua magnifica qualità immaginaria (che tutte le competenze andassero davvero alle Regioni sarebbe un disastro per le regioni stesse, oltre che per l’Italia, come abbiamo scritto su questo giornale) o di bilancia prelettorale per la Lega (e tara delle rogne interne), ha sortito un effetto campanilisticamente blando.
Niente serie querelle tra Nord e Sud. Niente Questione Meridionale. Niente onda di accuse/recriminazioni. Pochi “ridateci i soldi del Mose”, troppo pochi. Niente o quasi niente. E non va bene. Non va bene per niente.

Mi tocca constatare, con estremo disappunto, che del razzismo verso i meridionali rimane veramente poco. Niente “vietato l’ingresso ai cani e ai terroni”, la frase “cattivo come un calabrese” a Milano non si sente più

Perché chi scrive è un meridionale, terrone, pacatamente convinto della generale superiorità del Sud sul Nord, dei terroni sui polentoni, dei meridionali sui settentrionali, del Mediterraneo sull’Europa. Del fatto che la cultura, la civiltà, il modo di vivere meridionali siano “the real thing” e il resto sia solo provincialismo. Che a sentire l’espressione “illuminismo milanese” ride, avendo avuto San Nilo, Gioacchino Da Fiore, Campanella, Sciascia e Carmelo Bene eccetera eccetera eccetera. E del resto comprensivissimo per chi ha l’opinione opposta. Si facessero avanti i Calafrica, i Vesuvio lavali tutti, i Napoli colera eccetera.

Chi scrive non pensa sconveniente un’Italia fatta di mille piccole patrie in conflitto campanilista, trova più interessante la rivista della Lega, Terra Insubre, di Micromega. E tocca constatare, con estremo disappunto, che del razzismo verso i meridionali rimane veramente poco. Niente “vietato l’ingresso ai cani e ai terroni”, la frase “cattivo come un calabrese” a Milano non si sente più. Anzi.

Forse il Nord si è davvero terronizzato, forse certi elementi di industriosità criminale terrona si agganciano -demonicamente- ai nucleotìdi produttivi del Nord

Perfino in Brianza la scaltrezza di qualche factotum legato alla ‘ndrangheta viene generalmente apprezzata da amministratori e amministrati: snellisce le procedure.

Non sappiamo se il Nord si è davvero terronizzato, o se certi elementi di industriosità criminale terrona si aggancino -in un qualche demonico dna- ai nucleotìdi efficientisti del Nord, ma c’è l’impressione che di fronte all’”invasione” di stranieri percepita il meridionale non venga più visto come straniero.

Solo come un cugino simpatico, magari un po’ civilmente ritardato, ma nell’insieme gradevole, perfino vagamente sexy. Che il famoso fannullonismo terrone stia diventando di moda. Persino Beppe Sala sindaco ha detto che Milano deve rallentare. E poi chi c’è che non ha un parente di Crotone?
E poi, almeno qui a Milano il piccante va, la nduja è appena più esotica del cacik (ma più apprezzata perché ne parla bene il New York Magazine). A proposito, adesso nei supermercati ci sono anche il ketchup e la salsa barbecue alla ‘nduia. E sono ottimi e pop.

Ma il problema è che nessuno ci discrimina più. Nessuno ci vede più come l’uomo nero, non siamo più, prendiamone atto, il negativo di quasi nessun positivo. Nessuno ci considera più “zozzi come ragni” o pensa che piantiamo i pomodori nella vasche da bagno. E non va bene. Non va per niente bene.

È bello, confortevole, buono e giusto e non artificialmente identitario pensare a una disomogeneità culturale italiana. Sarebbe bello cominciare ripristinando le discriminazioni verso i terroni. Non siamo simpatici. Siamo davvero mafiosi (o almeno vorremmo esserlo). Siamo ben più pericolosi dei migranti

Perché un’Italia regionalmente apolide è quello che è: una perdita di biodiversità (o diversità culturale fate voi), perché è bello, buono e giusto e non artificialmente identitario pensare a una disomogeneità culturale italiana. Pensare che l’Italia è davvero divisa (almeno) in due. Che uno di Lubecca assomigli a uno di Lodi più di quanto assomigli a uno di Marsala. E che quest’ultimo si affacci dalla finestra nelle notti di luna e sogni Biserta, non Bruxelles (ma chi cazzo sognerebbe mai Bruxelles). Che esistano in breve (almeno) i terroni e i polentoni, e che siano diversi. Non solo macchiettisticamente.

Perché le differenze tra Nord e Sud sono vere. Oggettive. Pesanti.
E anche perché le mille piccola patrie e i campanili sono interessanti. Per esempio, i dialetti hanno ancora adesso una vitalità lessicale e una adattabilità superiore all’italiano. Lo raccontano i dialettologi: gli immigrati tendono a imparare i dialetti del posto in cui si trovano ben prima dell’Italiano
, o dell’italiano imbruttito che finisce per rendere i loro figli dei “senza lingua” (“Alali” li definiva Tullio De Mauro).

Altro che ius soli, ci vorrebbe uno ius tribus, diritto a far parte di una tribù, per i figli degli immigrati. Perché un’identità ferma ma piccola, fatta di un campo di tensioni con altre identità, si combina con le altre: vedi alla voce “integrazione”, più e meglio di quanto imporrebbe un’ideologia del dialogo necessario, o di un’indefinita apertura illuministico-riflessiva, o una generica etica dell’incontro, dell’apertura eccetera (o addirittura, come sosteneva un favoloso e supernovecentesco Giorgio Agamben giorni fa, a una rinuncia alla cittadinanza in quanto dispositivo biopolitico oppressivo).

Altro che tutti senza patria: utopia per utopia, sarebbe bello cominciare ripristinando le piccole patrie. E le discriminazioni verso i terroni.
Non siamo simpatici (anche se spesso lo sembriamo). Siamo davvero mafiosi (o almeno vorremmo esserlo). Siamo ben più pericolosi dei migranti (e consumiamo un bel po’ di risorse). Siamo, pure, tendenzialmente reazionari, misogini, sessisti e non vediamo l’ora di metterci in malattia.

Fateci fare un po’ di contrappeso, su. L’assenza di peso è pop, ma alla lunga è davvero stupida.

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