Grazie LondraL’Italia ora non è più la barzelletta d’Europa

Dal ministro degli esteri Boris Johnson che raccomanda alla Libia di "rimuovere i cadaveri per diventare un'attrazione turistica", alla premier Theresa May che riceve lettere di licenziamento da comici. Il Regno Unito sembra sempre di più una repubblica delle banane

Oli SCARFF AFP

Eravamo lo zimbello d’Europa. Parlamentari condannati, comici leader di partito, premier che facevano cucù e raccontavano barzellette. Definivano l’Italia, “la repubblica delle banane”. Per fortuna, ora, c’è una classe politica che fa ridere mezza Europa al posto nostro per la sua inadeguatezza. No, non c’entra Donald Trump. Stiamo parlando dei politici inglesi e di come stanno gestendo la Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Partiamo da Boris Johnson, il ministro degli Esteri. Vorrebbe essere ricordato come il nuovo Winston Churchill, ma ha più chance di passare alla storia come il Benny Hill della politica inglese. Servirebbe un romanzo per descrivere tutte le gaffe compiute prima come sindaco di Londra e ora come ministro degli Esteri. Mercoledì, durante un incontro a margine del congresso del partito conservatore a Manchester ha detto che la città libica di Sirte, devastata dalla guerra civile in corso, potrebbe diventare un polo turistico come Dubai quando finalmente “saranno rimossi i cadaveri”.

Una settimana fa il Guardian ha pubblicato un video dove si vede Johnson recitare un poema pro colonialista di Rudyard Kipling all’interno della Pagoda Shwedagon, il tempio buddista più importante in Myanmar. Amante della poesia, si dirà, ma citare un poeta simbolo del colonialismo inglese in un Paese che ha subito la colonizzazione britannica per 120 anni, con continue repressioni, sarebbe come se Angelino Alfano cantasse “Faccetta nera” in Etiopia.

L’esuberanza non è un problema in politica, ma nella diplomazia rischia di far perdere la credibilità di una nazione. Forse Boris Johnson non era la scelta migliore. Prima dell’incarico aveva accusato Barack Obama di avere un odio ancestrale verso l’impero britannico perché metà kenyota (il padre dell’ex presidente Usa è nato nell’ex colonia inglese in Africa). Da giornalista per il The Spectator definì Hillary Clinton “un’infermiera sadica di manicomio”, l’anno scorso ha scritto una poesia umoristica definendo Erdogan un “molestatore di capre”. Ma da quando Theresa May l’ha nominato ministro degli Esteri tutto è cambiato. In peggio.

La premier non aveva scelta: c’era il negoziato Brexit da portare avanti, e Johnson è stato uno dei più strenui sostenitori dell’uscita dall’Ue. Durante la campagna referendaria nel maggio del 2016 Johnson disse che l’Unione europea stava perseguendo un obiettivo simile a quello di Hitler nel cercare di creare un super-stato.

La premier del Regno Unito, Theresa May, non è messa meglio. Se il suo discorso a Firenze era sembrato vago e tattico, con molte promesse e poche proposte concrete, quello pronunciato a Manchester nel congresso dei conservatori è stato l’apice della sua inadeguatezza politica. Doveva essere il suo rilancio, e invece è crollato tutto, letteralmente. Non solo la sua credibilità.

Prima il comico Simon Brodkin ha consegnato a May una lettera di licenziamento firmata Boris Johnson. Poi per almeno dieci minuti ha avuto un attacco di tosse che ha fatto proseguire a singhiozzo il discorso. Per risolvere la situazione imbarazzante, il ministro delle Finanze Philipp Hammond, seduto in prima fila le ha passato una caramella per la gola. Nel frattempo, alcune lettere che componevano la scritta in lamina alle sue spalle “Costruire un Paese che funzioni per tutti” sono cadute, creando il delirio nei social.

In più secondo il Telegraph parte del discorso di May è stato copiato dalla prima puntata della quarta stagione di “The West wing“, serie tv culto sul presidente degli Stati Uniti e il suo staff. Anche se la politica inglese assomiglia più a “The Thick of it”, serie tv satirica britannica su un ministro inglese goffo e impreparato. La finzione è diventata realtà.

Eppure May era partita bene. Nel suo discorso d’insediamento come leader dei conservatori aveva detto: “Brexit, significa Brexit”. Un’uscita, veloce, sicura, affidabile. Poi, la realtà dei fatti: un partito diviso tra i sostenitori della Hard e Soft Brexit. Lei nel mezzo, indecisa. Tanto da fare titolare all’Economist. Theresa May(be). Theresa, forse. I negoziati che non partono, dall’altra parte un blocco di 27 Paesi con una sola convinzione: far pagare caro il divorzio. May, convinta di avere il Paese dalla sua parte, ha indetto elezioni anticipate a giugno. Si è ritrovata con i laburisti al 40%, meno seggi e un accordo obbligato con il Dup, partito unionista nordirlandese per tenere viva una fragile maggioranza.

L’uscita del Regno Unito dall’Ue si è rivelata un’impresa più difficile del previsto. Ancor più con un partito dilaniato dalle continue lotte interne ed esterne.

George Osborne, ex ministro del Tesoro e braccio destro dell’ex premier David Cameron, si è reinventato giornalista dopo che May lo ha costretto alle dimissioni. Tutti i giorni attacca il Governo dalle colonne dell’Evening Standard. E avrebbe promesso ai suoi ex colleghi di continuare fino a quando non avrà fatto May a pezzettini da mettere in un sacchetto nel suo freezer. In confronto il “che fai mi cacci” di Fini a Berlusconi era una ripicca tra ragazzini.

E poi c’è Cameron l’artefice di questo circo. Con una decisione scellerata ha dilapidato un tesoro politico: aveva rilanciato l’economia britannica, vinto le elezioni con un’ampia maggioranza e sconfitto gli indipendentisti scozzesi nel referendum del 2014. Poi, per accontentare la minoranza interna del suo partito ha indetto il referendum Brexit. Dopo la sconfitta, ha lasciato ai suoi colleghi l’onere di condurre il negoziato. E se n’è andato così, canticchiando la sigla di West Wing dopo aver dato le dimissioni. Come un Mr. Bean qualunque che ha recitato il suo compitino.

Anche fuori dai conservatori la classe politica inglese non dà il suo meglio. Nigel Farage dopo aver vinto il referendum Brexit si è dimesso da leader del partito nazionalista Ukip e ha iniziato una carriera da conduttore radiofonico del Nigel Farage Show, sull’emittende Lbc. Farage sembra più a suo agio nei panni di deejay che in quelli di parlamentare europeo, anche se non si è ancora dimesso. Fa sempre comodo avere due pulpiti. E nel primo accetta anche le telefonate da casa.

Un tempo i ministri si dimettevano per aver addossato la colpa di una multa alla moglie o per dei rimborsi spese gonfiati. L’Economist – a torto o a ragione – non è questo il punto – diceva che Silvio Berlusconi era inadatto a guidare l’Italia. Prendevano in giro la nostra classe politica da repubblica delle banane. Forse avevano (e hanno) ragione, ma ora subiscono il contrappasso.