Con i monumenti siamo a posto, ma forse qualche problema col fascismo ce l’abbiamo ancora

Un articolo apparso sul New Yorker della storica americana Ruth Ben-Ghiat ha fatto scoppiare feroci polemiche a tutti i livelli: dai social network ai principali quotidiani, la riposta italiana è stata forte e immediata, ma forse ci siamo persi la domanda e un'occasione per una riflessione su di noi

Qualche giorno fa, la storica dell’arte americana Ruth Ben-Ghiat ha pubblicato sul sito del New Yorker, un articolo intitolato “Why are so many fascist monuments still standing in Italy?”, ovvero “Come mai ci sono ancora tutti quei monumenti fascisti in Italia”. La reazione italiana non si è fatta attendere. È stata immediata, veemente, unanime e definitiva. Dalle reti social unificate e dalla maggior parte delle testate giornalistiche mainstream, si è alzato un coro quasi unanime di “ma che cazzo vuoi insegnarci te che la cosa più vecchia che c’avete negli Stati Uniti è tua nonna”.

Eppure, al della domanda che dà il titolo all’articolo, la tesi di Ruth Ben-Ghiat non contiene quanto paventano invece le risposte accorate del popolo italiano indignato. Se Antonio Carioti sul Corriere non riesce ad andare molto più in là della tautologia — sono sopravvissute perché sono sopravvissute — , Fulvio Irace sul Sole24Ore si spinge oltre, scrivendo che “la proposta di demolire questi edifici risulta puerile e semplificatoria quanto criticamente fallace”. E lo sarebbe anche, se solo questa fosse la proposta di Ruth Ben-Ghiat.

Il punto su cui vuole battere l’articolo della studiosa americana, che è specializzata in storia dell’arte, in cultura italiana e in storia dei totalitarismi, non ha nulla a che vedere con alcuna modesta proposta di abbattimento di statue ed edifici che appartengono alla storia dell’arte mondiale. La domanda che si fa — e ci fa — l’americana è molto più interessante di quel che sembra e, che lo vogliamo o no, dice qualcosa di noi, esattamente come dice qualcosa di noi la risposta. Immediata, veemente, unanime e definitiva.

«Si usano le stesse parole usate dai fascisti, nello stesso luogo. L’architettura razionalista è bellissima, ma bisogna prenderla in considerazione con un pensiero che non sia solo estetico»


Ruth Ben-Ghiat

«Nel 2014», scrive Ruth Ben-Ghiat, «Matteo Renzi annunciò la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 e lo fece all’interno di un edificio che si chiama Foro Italico, esattamente sotto un dipinto intitolato “Apoteosi del fascismo”, che gli alleati nel 1944 coprirono perché dipingeva il Duce come una figura divina. Sarebbe molto difficile immaginare Angela Merkel fare lo stesso di fronte a un dipinto celebrativo di Hitler». E cita un altro caso di questo tipo, ovvero la decisione della stilista Fendi, nel 2015, di fare del Palazzo della Civiltà Italiana la sede globale dei suoi uffici e, ancor di più, di averci organizzato una mostra intitolata al “Genio Italiano”.

«Si usano le stesse parole usate dai fascisti, nello stesso luogo», risponde la studiosa a una interessante intervista della rivista The Submarine, l’unica ad aver voluto approfondire la cosa, «Non c’è sensibilità storica alla lingua, ai gesti, agli usi dei monumenti. E ce ne vorrebbe di più. L’architettura razionalista è bellissima, ma bisogna prenderla in considerazione con un pensiero che non sia solo estetico».

Un primo ministro italiano che fa una dichiarazione sotto enorme dipinto che raffigura Mussolini in modalità Dio con una gigantesca bandiera del fascio che gli sventola davanti. Una stilista dell’eccellenza italiana che organizza una mostra per glorificare lo spirito dell’italianità in un luogo sulle cui quattro facciate c’è scritto a caratteri cubitali un motto estratto direttamente dal discorso in difesa dell’Italia fatto da Mussolini nell’ottobre del 1935 per dichiarare guerra all’Etiopia:«Ed è contro questo Popolo al quale l’umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro questo Popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori, è contro questo Popolo che si osa parlare di sanzioni».

Popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori. Anche se ce lo siamo dimenticati, quello che noi ormai usiamo come un proverbio, ogni tanto anche per sottolineare la nostra solidarietà con i migranti, visto che lo siamo anche noi, è un pezzo di una dichiarazione di guerra. Ed è proprio il fatto che noi non lo sappiamo nemmeno più, come non sappiamo nemmeno più che metà delle architetture che ci circondano — palazzi, tribunali, stazioni, musei — sono di quel periodo e hanno incarnato dei significati forti, violenti, orribili. Non vuo dire che dobbiamo abbatterli. La storia deve stare in un museo, diceva un tale. Però vuol dire anche continuare a farci caso.

Certo, si potrebbe dire che in parte è un ottimo segnale. Siamo tutti d’accordo che se una popolazione riesce a fare i conti con il proprio passato abbastanza seriamente da non avere paura di trovarselo di fronte ad ogni angolo, la cosa non può che far piacere, perché si chiama risolvere i propri problemi con la propria storia. La domanda però resta: li abbiamo fatti veramente i conti con la nostra storia? Si chiede indirettamente Ruth Ben-Ghiat. E se la nostra risposta, quando si parla dei monumenti, è un SI in capslock, siamo sicuri che quando invece si parla d’altro, di razzismo dilagante, di ascesa nei sondaggi di forze nazionaliste se non addirittura dichiaratamente neofasciste, la risposta sia ancora quel sì?

In altre parole, è come se la studiosa americana, vedendo che qui in Italia beviamo alcool a qualsiasi ora del giorno, ci avesse chiesto: Non è che avete problemi con l’alcool? E noi, invece di sorriderle bonariamente e spiegargli che vino, grappa, liquori e birra, sono parte integrante della nostra cultura — come d’altronde l’architettura razionalista — le abbiamo iniziato a sbraitare davanti. «No, che cazzo dici?», «Sei una mentecatta a pensare una cosa del genere!», «Ma guardati te!», «Pensa ai vostri problemi con le armi!». E forse a questo punto se fossimo in lei, indietreggiando, predicando pace e calma e abbozzando una specie di sorriso, ce ne andremmo pensando che sì, qualche problemino con l’alcool questi ce l’hanno, e pure grosso. E forse affrontare questa domanda è un modo migliore per farci i conti che combattere le nuove forme di fascismo a colpi di leggi, come se la cultura non potesse farci più nulla.

X