Fino al 1994 è stata l’autostrada per diventare presidente della Repubblica. O per passare alla storia. Ora è il cimitero degli elefanti della politica italiana. Nella seconda repubblica chi diventa presidente della Camera è condannato all’irrilevanza politica. La maledizione di Montecitorio ha colpito tutti: da Pier Ferdinando Casini a Fausto Bertinotti, fino a Gianfranco Fini. Tutti i presidenti della Camera degli ultimi 23 anni sono poi “morti” politicamente. E Laura Boldrini rischia di fare la stessa fine.
Tutto è iniziato con Irene Pivetti, diventata a 31 anni la più giovane presidente della Camera di sempre. Nel 1994 la Lega impose la sua nomina dopo aver vinto le elezioni con Berlusconi. Si voleva svecchiare uno dei simboli della Prima Repubblica travolta da Tangentopoli con un volto giovane, fresco, sconosciuto. Sembrava l’inizio di una straordinaria carriera politica. È stata la sua fine. La legislatura durò solo due anni e nel ‘96 Pivetti fu addirittura espulsa dalla Lega Nord per la sua posizione contro la secessione della Padania, al tempo una priorità del partito. Pivetti si è riciclata nell’Udeur di Clemente Mastella, rimanendo in Parlamento fino al 2001. Poi è arrivata la tv. L’ex presidente della Camera è diventata autrice televisiva e conduttrice di programmi su La7 e Mediaset. Il più famoso: “Bisturi, nessuno è perfetto”, programma dove i concorrenti si sottoponevano a interventi di chirurgia estetica. In mano non più il campanello per mantenere l’ordine in aula ma un microfono per condurre, al suo fianco non più i “maggiordomi” della Camera ma Platinette. Insomma, da giovane (e sconosciuta) promessa della politica italiana a conduttrice televisiva.
Un uomo che ha sempre evitato le luci dei riflettori è il suo successore, Luciano Violante. Famoso per essere stato presidente della commissione antimafia dal 1992 al 1994, e aver interrogato Tommaso Buscetta, il pentito che parlò per primo delle relazioni tra Cosa Nostra e il mondo politico italiano. Dopo la presidenza della Camera però, non ha più ricoperto ruoli politici rilevanti. Addirittura nel 2014 il Pd l’ha proposto come giudice della Corte Costituzionale ma non ha raggiunto il quorum necessario per essere eletto.
Da un po’ di anni non si parla più di Pier Ferdinando Casini. L’ex democristiano in Parlamento dal 1983, con il suo piccolo, ma decisivo partito, l’ Udc, è stato per anni l’ago della bilancia della politica italiana, il punto d’incontro tra Forza Italia di Silvio Berlusconi e Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Forse il politico che si è trovato più a suo agio nello scranno più alto di Montecitorio dal 2001 al 2006. Anche lui, dopo la presidenza della Camera ha vissuto il declino. Nel 2008, subito dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni, arrivò la rottura con Berlusconi. L’ex presidente della Camera si staccò dalla Casa delle Libertà per accreditarsi come leader di una destra di governo più rispettabile e prepararsi il campo dopo la fine del berlusconismo. Dopo le dimissioni del Cavaliere nel 2011, Casini ha tentato il rilancio politico alleandosi con “Scelta Civica”. Una decisione fatale. Il partito creato dal presidente del Consiglio uscente Mario Monti per sfruttare l’onda lunga di consenso (non così lunga) dopo il governo 2011-2013, prese i voti di quasi tutti gli elettori del piccolo partito di Casini. Alla copia si prefersce sempre l’originale. L’ex presidente della Camera è riuscito solo per un soffio a tornare in Parlamento, questa volta al Senato, grazie alla vittoria nella circoscrizione della Basilicata. Casini è rimasto parlamentare ma non ha più ricoperto un ruolo di primo piano. Ora è presidente della commissione parlamentare per le banche. Anche qui briciole di potere.
Gianfranco Fini è forse l’esempio più calzante del bacio della morte di Montecitorio. Fino alla sua elezione alla presidenza della Camera nel 2008 era considerato la stella della destra popolare italiana. Nel congresso di Fiuggi del 1995 da segretario del Movimento Sociale Italiano aveva trasformato il partito erede della tradizione fascista, escluso fino ad allora da qualsiasi incarico istituzionale, in un partito di governo. Un nuovo nome: “Alleanza nazionale” e un nuovo alleato Silvio Berlusconi. Considerato il delfino del Cavaliere, nel 2008 scelse lo scranno più alto di Montecitorio per togliersi l’ultima crosta di impresentabilità come leader di un movimento di origine fascista. Una volta diventato presidente della Camera, Fini ha iniziato ad attaccare il governo quasi ogni giorno, attirando su disé le critiche della maggioranza per la mancanza di imparzialità. Anche qui la stessa operazione politica di Casini, per accreditarsi come erede del centrodestra post berlusconiano. A differenza dei suoi predecessori il declino politico è iniziato durante la carica: l’inchiesta giudiziaria sulla casa del cognto a Montecarlo finanziata con i soldi del partito, l’uscita dal Pdl (il Partito delle libertà dove erano confluite An e Forza Italia) immortalata dal celebere “che fai mi cacci?” e la creazione di “Futuro e libertà. Un partito nato morto. Come l’Udc di Casini ebbe la fatale idea di allearsi con Scelta civica che drenò dalla sua parte tutti i voti dei suoi due piccoli alleati. A differenza di Casini, Fini non è nemmeno entrato in Parlamento nel 2013.
Così come fuori dal Parlamento c’è il suo predecessore: Fausto Bertinotti, presidente della Camera dal 2006 al 2008. Anche lui era uscito dall’aura di imparzialità del ruolo per attaccare i suoi alleati di governo. Il segretario di Rifondazione Comunista non si limitò a coordinare i lavori dell’aula e criticò più volte il governo Prodi definendolo “un brodino caldo”. E quando quel governo cadde, si presentò a capo della sinistra arcobaleno, la coalizione dei partiti di sinistra radicali e i verdi, ma non riuscì a superare la soglia di sbarramento e prese un misero 2,4%. La maledizione di Montecitorio non ha risparmiato nemmeno lui.
E dire che nella prima Repubblica sedersi sulla poltrona più alta di Montecitorio era come vincere la lotteria della politica italiana. Dal 1948 al 1994 cinque presidenti della Camera su otto sono andati poi al Quirinale. A partire da Sandro Pertini, forse il presidente più amato della storia italiana, ma anche i democristiani Giovanni Gronchi e Giovanni Leone. Ogni volta che i partiti hanno dovuto scegliere una figura super partes, un politico slegato dalla maggioranza da nominare come presidente della Repubblica hanno guardato quasi sempre a Montecitorio. Soprattutto nei momenti di crisi. Nell’Italia del 1992 traumatizzata da Tangentopoli e dagli attentati di Mafia, subito dopo la strage di Capaci, i partiti scelsero Oscar Luigi Scalfaro, pescandolo proprio da Montecitorio. Stesso discorso per il suo successore. Giorgio Napolitano. Presidente della Camera dal 1992 al 1994 è stato l’unico presidente della Repubblica a essere rieletto. La prima nel 2006, la seconda nel 2013.
E chi non è andato al Quirinale è passato comunque alla storia della politica italiana, superando la sfida del tempo. Nilde Iotti, moglie dello storico segretario del partito comunista Palmiro Togliatti è stata la prima donna a ricoprire la terza carica dello Stato e la presidente più longeva. Tredici anni, dal 1979 al 1992. Più o meno gli stessi anni in cui Margaret Thatcher governava il Regno Unito. Nilde Iotti era la nostra lady di ferro. Prima di lei un altra colonna del partito comunista italiano è passato alla storia, passando da Montecitorio: Pietro Ingrao. L’unica eccezione in questa lista Brunetto Bucciarelli – Ducci, presidente dal 1963 al 1968. Solo lui dimenticato, triste solitario y final.
Ora Laura Boldrini rischia di fare la stessa fine dei suoi predecessori nella seconda Repubblica. Nei cinque anni di presidenza ha attirato su di sé polemiche per le sue posizioni radicali. La lotta contro i discorsi d’odio su internet, la polemica su l’uso dei termini maschili (vi ricordate, la “presidenta”?), la sua posizione sui migranti. Boldrini è troppo divisiva, per essere riconfermata in una carica istituzionale. E poi Sel (sinistra ecologia e libertà) che l’aveva candidata in Parlamento come indipendente non esiste più. Boldrini si è avvicinata al “Campo progressista” di Pisapia ma il tentennare del suo leader, indeciso con chi allearsi e addirittura tentato di lasciare, non fa ben sperare. La sensazione è che se anche Boldrini entrasse in Parlamento, come i suoi predecessori, sarebbe condannata all’irrilevanza politica. E il più alto scranno di Montecitorio aspetterà il prossimo presidente per dare il bacio della morte politica.