Franceschini annaffia le rose con lo champagne, se volete un politico-scrittore leggete Malraux

I racconti di "Disadorna" scritti dal ministro della Cultura sono sketch esistenziali redatti in inchiostro simpatico scimmiottando Carver e Baricco. Apprezzate le pagine del politico francese che racconta le sue serate con Mao in un libro a metà tra Conrad e 007

Il bastone. Sbaglierò, ma a un qualsiasi rappresentante della Repubblica, figuriamoci a un Ministro, si deve pretendere un surplus di pudore. L’esempio sommo è quello di Alexis Léger, segretario generale del Ministro degli Affari esteri francese, che dal 1924 al 1940 – quando pigliò la via dell’esilio: d’altronde, alla Conferenza di Monaco del 1938 fu l’unico, tra i pupazzi di governo, a ribellarsi alle pretese di Hitler, fin quasi a venire alle mani – si vietò di pubblicare e impedì agli editori di ristampare la sua opera. Alexis Léger, che con lo pseudonimo di Saint-John Perse è tra i massimi poeti del secolo scorso, di sempre, Premio Nobel per la letteratura nel 1960, riteneva inconciliabile l’attività politica con quella pubblicistica. Altri tempi, altra tempra. In questi tempi – bastardissimi – nessun editore si sogna di pubblicare Saint-John Perse, un genio (leggete, almeno, vi prego, Anabasi, poemetto epico tradotto da Giuseppe Ungaretti), mentre tutti i giornali parlano dell’ultima ‘fatica letteraria’ del Ministro Dario Franceschini. Piuttosto, si fa fatica a capire perché lo spudorato Ministro si ostini a pubblicare – che trovi facilmente un editore disponibile, beh, quello non faccio fatica a crederlo. I racconti radunati in Disadorna, ad esempio, non sono racconti. Sono sketch esistenziali redatti in inchiostro simpatico, simpatizzando, forse, per la prosa di Alessandro Baricco, scimmiottando un Raymond Carver messo alla catena, a redigere romanzi rosa. Il carisma narrativo di Franceschini è il patetico: è patetica Angiolina, che il giorno della Liberazione “con gli occhi lucidi” cuce la scritta CLN sulla “grande bandiera”; è patetico il Conte Armistizio Vitafinzi – nomi simili lasciamoli alla prosa sonnambula di un Manganelli – che “il mattino del suo novantottesimo compleanno” pretende il Viagra per dar fiato all’estremo singulto della carne; è patetico Malagù che dice che Shakespeare “Al ’s faseva dar in ’tal cul ànca lu”; è patetico il tipo in pensione che decide di andare a vivere davanti al mare dopo una vita passata “a inseguire desideri, carriera, passioni”; è patetica, soprattutto, la storia di Nizar, profugo siriano, laureato, che vive da barbone e muore di freddo, a gennaio, “in piazza Dante, all’Esquilino”. Storie patetiche e scritte male, di chi vede la vita dall’attico, dallo schermo delle auree aule del Ministero, e annaffia le rose con lo champagne, pensando che la letteratura sia un attimo di ‘evasione’, mentre la letteratura è escoriazione e schianto. L’unica cosa che avremmo voluto leggere da Franceschini – l’unica cosa, in fondo, che il Ministro avrebbe potuto scrivere – è un ritratto dei potenti e dei potentati, il dietro le quinte del potere, la falange dei lacchè, le orazioni burocratiche, uno squarcio sulle piccole meschinità di chi mendica l’attenzione del Ministro, una visione sovrana – argentata di cinismo – sulla mascherata della politica. Figuriamoci. Il Ministro non ha le palle, probabilmente si sta ritagliando un futuro, dopo la legislatura Gentiloni, come sceneggiatore per Walter Veltroni, già Ministro alla cultura pure lui, autore di libri sufficientemente inutili – Noi, L’isola e le rose, Ciao, ad esempio – e di film egualmente vacui. D’altronde, per restare in questo riservatissimo club di Ministri con velleità d’artista, Sandro Bondi, indimenticato Ministro dei beni e delle attività culturali in era Berlusconi, dedicò A Walter Veltroni una poesia di rara bruttezza, “Tenero padre/ madre dei miei sogni./ Anima ulcerata./ Figlio mio/ ritrovato”. La sua raccolta di poesie, Perdonare Dio, fu pubblicata nel 2007 con l’avallo di un poeta di vaglia, Davide Rondoni, tutto felice, “l’uomo pubblico e poeta finalmente coincidono… l’onorevole Bondi esce dall’anonimato poetico e ci offre un suo diario di uomo di pena e meraviglia”. Che pena. A onore di Bondi va ricordato che non ha più pubblicato poesie da allora. Certo, c’è da chiedersi, visto che gli editori sono perennemente in bolletta e non possono permettersi di fare libri a vanvera, a salve, se per pubblicare il Ministro Franceschini ci ha rimesso un qualche talento vero – ma sconosciuto – della nostra letteratura. Sarebbe un danno nazionale. Ma magari, chissà, il libro il Ministro se l’è pagato di tasca sua.

Dario Franceschini, Disadorna, La Nave di Teseo, 2017, pp.92, euro 15,00

La carota. C’è incompatibilità estetica tra il ruolo del politico e quello dello scrittore? Diciamo che da Giulio Cesare – maestro di stile e di menzogne, ma che noia tradurre il De bello gallico al liceo – e da Marco Aurelio in qua, la Storia insegna che i governanti sono dei pessimi scrittori – per questo, forse, si danno da fare a far sterminio degli scrittori veri. Winston Churchill non è un’eccezione: eccelso battutista, il Nobel per la letteratura nel 1953 è un insulto ai grandissimi – Proust, Kafka, Joyce, ad esempio – assegnato, probabilmente, per meriti geopolitici. La vera eccezione è André Malraux, che però fu scrittore, e grande (La condizione umana, I conquistatori, La via de re), ben prima di diventare plenipotenziario della cultura francese, dal 1959 al 1969. Non è un caso, però, che durante il decennio politico Malraux non scriva nulla di rilevante. Tranne le Antimemorie, libro agiografico di vorticosa bellezza, dove Malraux – volpe, dandy, avventuriero, bastardo – fa il monumento a se stesso. Lo scrittore ci racconta la sua vita al fianco di De Gaulle, ci narra di quella volta in cui ha parlato del tramonto dell’Occidente con il Primo ministro indiano Nehru, siamo in ‘presa diretta’ vicini a Mao durante la ‘Lunga marcia’, passeggiamo tra i reperti indonesiani, nelle grotte di Lascaux, nelle aule del potere sovietico e al Polo, “in questa notte polare, al disopra delle ultime acque primordiali”, dove “dialogano tutti i miei ricordi superstiti”, con un linguaggio barocco e proteiforme, aristocratico e marziale, vigorosamente partigiano, tra Joseph Conrad e 007. Dove il punto, infine, frequentando il potere senza dimenticare di assaggiare la merda, è l’abisso umano. “Avendo vissuto nell’incerto regno dello spirito e della finzione che è proprio agli artisti, poi in quello del combattimento e quello della storia, avendo conosciuto a vent’anni un’Asia la cui agonia metteva ancora in luce cosa significasse l’Occidente, ho incontrato varie volte, ora umili ora abbaglianti, quei momenti in cui l’enigma fondamentale della vita appare a ciascuno di noi come appare a quasi tutte le donne davanti al viso di un bambino, a quasi tutti gli uomini davanti al viso di un morto. In tutte le forme di ciò che ci trascina, in tutto ciò che ho visto lottare contro l’umiliazione, e anche in te, dolcezza che ci domandiamo che cosa stai a fare qui in terra, la vita, al pari degli dei delle religioni scomparse, m’appare a volte come il libretto di una musica sconosciuta”. Magnifico. Magnetico. Il libro, edito in Francia nel 1967, fu tradotto da Bompiani l’anno dopo. Nella bandella si parla di Malraux come di “uno dei grandi testimoni del ventesimo secolo”; in copertina, la fotografia di Germaine Krull mostra un giovane Malraux in controluce, che morde la sigaretta e vi fissa, con occhi allucinati. Antimemorie andrebbe adottato nelle scuole. Invece, non lo ristampa più nessuno, gli italiani devono sorbirsi Franceschini, che narcotizza l’intelligenza.

André Malraux, Antimemorie, Bompiani, 1968

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