Disastri naturali, foreste incendiate, temperature in rialzo. Ma non solo: fiumi e mari inquinati, mari intossicati, animali in via d’estinzione. Il cambiamento climatico è tutto questo e chi si ostina a negarlo – o a negare l’impatto dell’attività umana – è, con ogni probabilità, in malafede. Ormai è un problema, un dato di fatto che i Paesi, cioè i politici che li rappresentano, devono affrontare: insieme, seduti a un tavolo a prendere decisioni comuni. La Terra è, ormai, una unica navicella e se ci si salva, in quanto specie, va fatto insieme.
Ma un’altra domanda sorge, e merita una certa attenzione. I politici hanno il compito di decidere le strategie, ma i costi per attuarli su chi dovranno ricadere? Sui Paesi che governano? Certo. Ma non solo: anche sulle aziende, almeno le principali responsabili dell’inquinamento su larga scala del pianeta.
È un aspetto che spesso rimane all’oscuro. L’inquinamento avviene, in molti casi, perché lo stile di vita della maggioranza della popolazione occidentale risulta, in ultima analisi, insostenibile per il pianeta. Per cui tutti, per una certa misura, ne siamo responsabili. Ma c’è chi inquina molto di più. E, a differenza della maggior parte della popolazione, lo fa contro le regole stesse decise dai governanti. Perché, a conti fatti (cioè tra spese legali ed eventuali multe) comunque conviene.
Secondo questa ricerca pubblicata da Climate Change, un giornale tematico sulla questione, sarebbero almeno 90 i grandi responsabili del cambiamento climatico. Sono tutte industrie del settore energetico fossile: petrolio e gas. Moltissime sono di proprietà statale, come la Saudi Aramco, ma non mancano anche quelle a proprietà privata, come la Chevron. In tutto, secondo la ricerca, contribuito all’innalzamento delle temperature medie per una percentuale che si aggira tra il 42 e il 50%. È tantissimo.
Certo: l’energia è una risorsa necessaria. In più, sia a livello diretto che a livello indiretto, tutti ne hanno usufruito (non gratis, di certo), anche sotto forma di progresso e di ricchezza diffusa. Il problema è un altro: di fronte alla consapevolezza dei rischi per l’ambiente, già chiara intorno agli anni ’80, tutte queste aziende hanno reagito scaricando ogni resposabilità. O nascondendo le prove (come, ad esempio, Exxon) o, peggio ancora, finanziando battaglie negazioniste. Lobby e think tank sono stati messi in gioco per fare pressioni sui governanti e, in misura più ampia, sull’intera popolazione.
Per anni, insomma, è stato coltivato il dubbio: “il cambiamento climatico non c’è”. E poi, di fronte all’evidenza, il “cambiamento climatico è naturale”. E così, si sono persi anni preziosi, tempo necessario per sviluppare politiche di contrasto. Colpevoli il doppio. Per questo sembra ragionevole pensare che, nella loro misura, anche queste aziende dovranno (o dovrebbero) contribuire a sostenere i costi derivanti dalle conseguenze dell’inquinamento. Sono già tanti, saranno sempre di più.