Questo no. Quello no. Quell’altro nemmeno. Se il problema dei travestimenti di Halloween è l’imbarazzo della scelta, state tranquilli: i college americani corrono in vostro soccorso elaborando sofisticati dress code. L’obiettivo? Divertirsi tutti, senza che nessuna minoranza si senta offesa.
E allora niente sombreri (i messicani potrebbero prenderla male). Poi, niente vestiti da geisha (anche i giapponesi, anche se non lo danno a vedere, sono molto permalosi). E ancora, niente costumi da Pocahontas (volete davvero mancare di rispetto ai nativi?). Come è ovvio, nessun bianco può travestirsi da nero (sarebbe un affronto) e sono da lasciar perdere tutti i personaggi storici più controversi (Cristoforo Colombo, per esempio, in questo periodo sarebbe davvero di pessimo gusto).
Sulla questione, la St. Thomas University in Minnesota è molto chiara: tutto ciò che può essere classificato con gli aggettivi “tradizionale”, “culturale”, “etnico”, “tribale” non va indossato – a meno che, è ovvio, non facciano parte delle tradizioni di chi li indossa. “La cultura – spiegano in un seminario – non è un costume”, e ridurla a un travestimento è una grave mancanza di rispetto.
Ma l’appropriazione culturale è solo uno dei tanti problemi. Come scrivono su 1870, il magazine della Ohio State University, il costume – come è giusto che sia – non deve essere razzista. “Dà validità alle idee dei suprematisti bianchi?”. Se sì, va scartato. “Si prende gioco di recenti tragedie nazionali o internazionali?” Subito via. O ancora: “Rende simpatiche persone inumane?”. Dipende da cosa si intende “inumane”, certo. Ma se è evidente che il vecchio travestimento da Kony va bruciato, anche l’abito da Aung San Suu Kyi, che l’anno scorso era perfetto, ora non si porta più tanto bene.
Ma non è finita: l’Università dello Utah, oltre a stigmatizzare (a ragione) il costume da Anna Frank, ricorda che sono proibiti dreadlock, treccine africane e acconciature afro. Non è per razzismo, anzi è proprio il contrario: “Vi immaginate quante persone non vengono assunte perché hanno i dreadlock, e quante vengono licenziate per lo stesso motivo?”. È un problema serio, c’è poco da scherzare.
Insomma, la questione, sintetizza uno dei docenti che ha stilato le linee guida, è che “si può benissimo apprezzare una cultura differente dalla propria senza doverla imitare per forza. Quando si vedono dei tratti culturali diversi e si cerca di riprodurli, ecco che arriva il problema”. Che poi chiama “problema” ciò che, più o meno, l’essere umano fa dalla notte dei tempi: incontrare gli stranieri, restare sorpreso, studiarli e imitarli, fino a rubare le loro idee e copiarne alcuni stili.
Ma questo importa poco. Si potrebbe, di fronte a questo insieme di regole, mettersi a gridare contro le follie del politically correct e il clima da polizia culturale. Giusto. Ma ancora più giusto è, forse, far notare in modo sommesso che Halloween è pur sempre Halloween, cioè una festa in cui si celebrano, in un certo modo, i morti. E allora basta con queste trovate fantasiose, dai costumi copiati dagli indiani a quelli ispirati dai nazisti: si segua la tradizione, ci si vesta da zombie, da cadaveri, da fantasmi, da vampiri e da zucche. Nessuno di loro – garantito – si offenderà.