Ho appena visto It.
E adesso ho voglia di abbracciare le persone, di fidarmi della gente, anche del tizio che mi ha appena tagliato la strada in macchina senza mettere la freccia, di scrivere una poesia per qualcuno che non mi ama, di avere dodici anni o su di lì, di entrare in una gang di sfigati nerd, di essere una perdente. Un’eroica perdente. Ah, è questo il tipo di sensazioni che dovrebbe suscitare l’horror più spaventoso dell’anno?
Le cose stanno così: It prima di tutto è una storia pazzesca. E grazie tante, l’ha scritta Stephen King. Sì, ma voi immaginatevelo il caro Steve al pub coi suoi amici, la sera in cui prende coraggio e dice:
“Ragazzi, ho l’idea per un romanzo…C’è questo clown, un clown che si mangia i bambini”.
“Grandissimo, i pagliacci mi mettono un’ansia che non ti dico! Suona figo!”
“Sì e poi alla fine si scopre che questo clown in realtà è un ragno gigante”. “Fanculo Steve, smettila di bere!”.
Negli anni precedenti al 1986, data di pubblicazione del romanzo, questa scena deve aver avuto luogo. Anche più di una volta.
Poi nel ’90, dopo il successo del libro, arrivò la trasposizione televisiva, una miniserie, in cui il pagliaccio in questione era quel Rocky Horror Picture Show coi piedi di Tim Curry. Intere generazioni sono state traumatizzate da un film che, dopotutto, col senno di poi, era robetta. Nonostante Curry, magistrale. Ora è nelle sale l’adattamento cinematografico di Andrès Muschietti, the next big thing di cui tutti parlano. Controverso fin dalla lunghissima lavorazione (fuga del regista Fukunaga, quello di True Detective, compresa), questo primo capitolo di It è un blockbuster mondiale, di proporzioni titaniche. A giudicare dai numeri, insomma, qualcosa che facile abbia visto pure vostra nonna il pomeriggio che s’è scocciata del punto croce davanti a Barbara d’Urso.
Si merita tutto questo successo o si tratta solo di giovanilistico hype? La risposta è sì, se lo merita. La distanza dalla miniserie è abissale, non solo perché sono passati una trentina d’anni da quella messa in onda. Qui la situazione è completamente ribaltata: Se prima It stava in piedi grazie a It (Tim Curry, appunto), oggi It regge a prescindere da It.
Il pagliaccio, l’attore Bill Skarsgård, è talmente intriso di computer grafica da essere praticamente ininfluente, un cartone animato, uno spot del Mc Donald’s col ketchup andato a male. Il clown da protagonista e cuore pulsante del terrore diventa una circostanza all’interno di una trama appassionante già di per sè. A parte qualche eccessiva strizzata d’occhio destro e sinistro agli anni Ottanta, i ragazzini del Club dei Perdenti sono un’ode al fallimento eroico. Sfigati, sbeffeggiati, incompresi, tostissimi. Non le classiche vittime bidimensionali che strillano alla prima goccia di sangue, no, questi affrontano qualsiasi rogna a muso duro. E con un sarcasmo davvero fuoriluogo. Dunque del tutto convincente.
Curry ha spaventato intere generazioni, dicevamo, e lo ha fatto perché il suo personaggio aveva quella follia irrazionale, per intenderci, la stessa del Joker di Heath Ledger, rideva, rideva sempre. Questo clown non ride mai, ha la faccia cattiva, la voce cattiva, vuole mangiarti, mangiarti, mangiarti. E se i suoi occhi fluorescenti fossero in grado di trasmettere qualsivoglia tipo di emozione, te lo direbbero pure loro. Roba che se sei un bambino e ti fidi di quella creatura (per quanto, davvero, abbiamo tutti ucciso zombie in pixel più spaventosi nelle salegiochi dei multisala) è solo selezione naturale. Curry era amichevole, Skarsgård aspira solo a diventare una gif.
Il pagliaccio compare poco, come nella miniserie originale, e arriva sempre ad interrompere qualcosa di veramente interessante che sta accadendo tra i personaggi. Tipo la pubblicità durante i film in tv. Quella del Mc Donald’s, chiaramente. Curry ha spaventato intere generazioni, dicevamo, e lo ha fatto perché il suo personaggio aveva quella follia irrazionale, per intenderci, la stessa del Joker di Heath Ledger, rideva, rideva sempre. Questo clown non ride mai, ha la faccia cattiva, la voce cattiva, vuole mangiarti, mangiarti, mangiarti. E se i suoi occhi fluorescenti fossero in grado di trasmettere qualsivoglia tipo di emozione, te lo direbbero pure loro. Roba che se sei un bambino e ti fidi di quella creatura (per quanto, davvero, abbiamo tutti ucciso zombie in pixel più spaventosi nelle salegiochi dei multisala) è solo selezione naturale. Curry era amichevole, Skarsgård aspira solo a diventare una gif. E ce l’ha già fatta, se scorrete le vostre home di Facebook. La rincorsa raffazzonata (sempre uguale), il balletto finale, tutto in lui grida “vi prego, fatemi essere un meme!”.
Si poteva fare meglio? No e sì. Dal punto di vista dello sviluppo dei personaggi, questo film è un capolavoro. Peccato solo si sia dimenticato di rendere It un personaggio. Anzi, peccato si sia dimenticato uno dei motivi principali per cui facesse così paura nella miniserie: sembrava una persona. Con quelle venuzze rosse intorno alle pupille, quei denti gialli, così aguzzi, così veri. L’effetto speciale base dei morsi mortali, qui, l’avete visto in almeno altri 117 film horror precedenti a questo. Magari pure in Megashark versus Giant Octupus (sì, esiste).
Se vi va di approfondire il tema pagliacci e di vederne uno fatto bene, senza computer grafica criminale, provate a recuperare Clown, film del 2014 prodotto da Eli Roth. A prescindere dalla trama (comunque non male) e dal basso budget, quello, per mimica facciale e psicopatiche sfumature mentali, è il tipo di pagliaccio che avrebbe reso giustizia al resto del cast di Muschietti.
It, questo nuovo It, è un’ode ai falliti, a chi è fuori dai giri giusti, a chi sembra essere nato nel posto sbagliato sempre e comunque e proprio per questo si trova davanti alla scelta di soccombere o diventare un eroe.
Ma sia dato a It ciò che è di It: ci sono una serie di spaventi costruiti a regola d’arte, questo è innegabile. Come è innegabile che in nessuna di queste scene il pagliaccio appaia col suo faccione dalla fronte altissima. C’è molto sangue, quasi mai a caso, e finalmente viene sfruttata l’idea di King, quella più inquietante di tutte: It può trasformarsi in qualunque cosa ti faccia paura, peggio, nella cosa che ti terrorizza di più. It sa qual è, non hai scampo. E nessuno ti crederà. A meno che tu non abbia degli amici perdenti, molto perdenti. La delicatezza con cui la scritta sul gesso “loser” diventa “lover”, il coraggio, il terrore che viene tutto dalle persone, dagli esseri umani che popolano Derry tra bulli sociopatici (ehi, ora hanno una personalità pure loro!) e adulti volutamente monodimensionali. Dopo aver visto It, se proprio vi sentiste in vena di fare incubi, il loro protagonista nove su dieci sarà il padre di Bev. Praticamente il nuovo Curry: poche scene, morbosamente disturbante.
Per concludere ribadiamo qualcosa che abbiamo detto già: It, questo nuovo It, è un’ode ai falliti, a chi è fuori dai giri giusti, a chi sembra essere nato nel posto sbagliato sempre e comunque e proprio per questo si trova davanti alla scelta di soccombere o diventare un eroe. Nel film questo percorso è nitido, chiarissimo ed è così che il legame tra i mocciosi diventa appassionante, smuove, emoziona. La prossima volta che vi verrà da prendere in giro uno sfigato, pensateci due volte. Anche la prossima volta che vi verrà da tagliarmi la strada senza mettere la freccia. Perché dal balbettio al «Benvenuto nel club dei perdenti, stronzo!», davvero, è un attimo.