Letture “La nuova grande trasformazione” del lavoro: il contratto a tempo indeterminato non interessa più

L’ultimo libro di Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt, è un vademecum su come la quarta rivoluzione industriale stia cambiando il sistema produttivo e il lavoro, investendo contratti, relazioni industriali e sindacato

Della quarta rivoluzione industriale (o Industria 4.0) sappiamo che ruota intorno all’innovazione tecnologica. E che economisti e sociologi fanno a gara nel calcolo di quanti posti di lavoro saranno sostituiti dalle macchine e quanti invece si salveranno. «Ma oltre la tecnologia, c’è la rivoluzione sociale», spiega Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt, nel suo ultimo libro La nuova grande trasformazione (Adapt University Press). Una guida scientifica attraverso fordismo e taylorismo, per capire dove sta andando il lavoro che facciamo ogni giorno, quello per cui puntiamo la sveglia, che ci dà lo stipendio a fine mese. E che ci sta cambiando sotto gli occhi. «La verità», dice Seghezzi, «è che non si possono fare previsioni quantitative sulla perdita dei posti di lavoro. Il fenomeno è più complesso e impatta sul lavoro e sulla vita di tutti i giorni. Molti lavori cambieranno, altri scompariranno».

E neanche i contratti saranno come prima. «I tempi di lavoro non sono più quelli del contratto a tempo indeterminato», spiega Seghezzi. «L’idea che la tutela del lavoratore si giochi unicamente nella durata del contratto appartiene a un modo di produrre vecchio. Prima si entrava in Fiat e si usciva 30-40 anni dopo. Oggi i cicli di vita dei prodotti sono più brevi, e non è detto che tu abbia le competenze per lavorare in quell’azienda per 40 anni. Ma non è nemmeno detto che tu voglia farlo».

Il contratto subordinato a vita non sempre risponde alle esigenze di carriera dei lavoratori più giovani. Gli ultimi dati dell’Osservatorio Veneto Lavoro dicono che in un caso su tre il contratto a tempo indeterminato dura meno di un anno. E non perché i dipendenti vengono licenziati. Molto spesso è il lavoratore a decidere di abbandonare il posto fisso. Dopo meno di cinque anni, la metà dei contratti stabili in Veneto si conclude. E nel 50% dei casi la risoluzione del contratto è dovuta alle dimissioni, più che al licenziamento, che riguarda il 30% dei casi.

La tutela non è più la tutela contro il licenziamento. Le tutele sono le competenze e l’aggiornamento professionale. Se l’impresa vuole avere una funzione sociale, deve investire nella formazione

«La tutela non è più la tutela contro il licenziamento. Le tutele sono le competenze e l’aggiornamento professionale», commenta Seghezzi. «Se l’impresa vuole avere una funzione sociale, deve investire nella formazione». Uno dei capitoli del libro si intitola non a caso “Le competenze come nuovo welfare”. Il che altera anche le relazioni industriali come le conosciamo oggi. Perché «la formazione diventa uno dei principali oggetti di scambio nella contrattazione. Il lavoratore la chiede all’impresa, ma la stessa impresa ha bisogno di lavoratori altamente qualificati, ed è disposta a pagare di più per le loro competenze».

È l’intera geografia della produzione, e quindi del lavoro, a essere interessata dalla quarta rivoluzione industriale. E allora anche il sindacato non può restarsene a guardare. «Il sindacato deve guadagnare una dimensione sempre più legata alle professioni, seguendo il lavoratore durante tutta la sua carriera, e non solo sul posto di lavoro», spiega Seghezzi.

Siamo all’inizio di qualcosa che non conosciamo. È la prima rivoluzione industriale di cui si parla prima che avvenga. L’industria 4.0 di per sé non esiste. Ogni territorio, ogni azienda avrà le sue tecnologie e il suo modello organizzativo, e deciderà dove andare

“La nuova grande trasformazione” si giocherà quindi non sulla difesa del posto di lavoro ma sul terreno delle competenze. Un tesoretto di conoscenze e abilità da rinnovare di continuo, per muoversi in questa geografia del lavoro rinnovata, in un mondo in condivisione con macchine altamente intelligenti. Che non necessariamente ci faranno da parte. Anzi, dice Seghezzi, «uomini e macchina sono complementari». Ma gli investimenti in tecnologia avranno conseguenze difficili da prevedere. «Da alcuni studi si è visto ad esempio come le tecnologie portino a una riduzione dell’occupazione nel settore manifatturiero, ma a un aumento in settori esterni come i servizi». Non sarà la “fine del lavoro”, insomma. Bisognerà solo capire dove andare.

«Siamo all’inizio rispetto a un’iniezione di tecnologia di nuovissima generazione», spiega Francesco Seghezzi. «Ma siamo anche all’inizio di qualcosa che non conosciamo. È la prima rivoluzione industriale di cui si parla prima che avvenga. L’industria 4.0 di per sé non esiste: ogni territorio, ogni azienda avrà le sue tecnologie e il suo modello organizzativo, e deciderà come muoversi». Senza perdere di vista la formazione. «In caso contrario, la tecnologia rischia di essere un boomerang. Certo, è singolare il fatto che nella legge di bilancio 2018 il credito d’imposta sulla formazione sia la norma più difficile da inserire, e che si andrà verso una revisione al ribasso. Si comincerà però a pensare non solo agli investimenti in tecnologia, ma anche alle competenze. Ma bisogna guardare anche alla qualità della formazione, c‘è un grande lavoro da fare azienda per azienda. Il rischio, altrimenti, è che si diano solo molti soldi ai formatori».

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