Sono consapevole che per quello che sto per scrivere meriterei una di quelle tornature che nei film western del passato, quelli in cui i nativi americani erano chiamati indiani e erano immancabilmente cattivi, torture tipo un gancio infilato nello scroto e poi legato a un cavallo imbizzarrito, ma oggi intendo parlare della Dark Polo Gang e più in generale di quella musica di merda chiamata trap (parlo nello specifico del trap italiano), a partire da due libri.
Operazione che può apparire filologicamente errata, perché niente è più distante dall’idea di libro della Dark Polo Gang e della trap italiana, ma che, se avrete la pazienza di seguirmi, ha un senso. Per spiegare cosa sia la Dark Polo Gang, senza però indurvi automaticamente a lasciare momentaneamente la lettura per correre a visionare un loro video su Youtube, metterò momentaneamente da parte il mio intento di spiegarvelo attraverso due libri, ricorrendo a un aneddoto personale.
È Ferragosto, sono all’ombra del Monte Conero, presso il lido Il Libeccio di Marcelli. Questo non tanto per sottolineare che sono marchigiano, quanto per dirvi che ho deciso di passare uno dei giorni più caotici dell’anno sì nella calca, ma nella calca che può esserci in un posto di suo poco caotico, fuori dalle rotte massificanti del turismo balneare. Sono steso su una sdraia, all’ombra, perché oggi deve essere un giorno di vero relax. Intorno a me la famiglia e gli amici, nel frigo sotto la sdraia il pranzo e le birre. Arrivano due ragazzi, avranno diciotto, massimo venti anni. Si siedono l’uno di fronte all’altro su un lettino. Uno al sole, l’altro all’ombra. Tirano fuori un mazzo di carte da Uno, e il tizio all’ombra inizia a mescolare le carte. L’altro tira fuori un cellulare e fa partire una canzone. Questa scena, i due ragazzi seduti uno di fronte all’altro che giocano a Uno mentre dal cellulare escono canzoni mi accompagnerà, mio malgrado, per tutto il giorno. O almeno per quella porzione di giorno che passerò sotto l’ombrellone, steso sul lettino.
Andrò più volte a fare il bagno, anche per colpa loro, che invece non si muoveranno di lì, se non per andare a mangiare al bar del Lido. La musica, se così vogliamo chiamarla, che esce dal cellulare, lo smartphone, è trap, della Dark Polo Gang per essere precisi. Tutto il giorno. Fino a oggi, Ferragosto 2017, il mio rapporto con la trap e più nello specifico la musica della Dark Polo Gang, è stato saltuario. Li ho ascoltati quel tanto che basta per farmi dire che non li voglio ascoltare. Perché è vero che sono un critico musicale, ma è anche vero che sono sufficientemente vecchio per potermi giocare la carta dello snob nostalgico che schifa tutto quel che è di appartenenza alla sfera dei millennials.
La musica della Dark Polo Gang è prodotta male, ma non volutamente male, semplicemente male, senza perizia, senza ricerca dei suoni, senza l’intento di creare un suono o di ricreare un suono, ma semplicemente usando mezzi spicci e usandoli con imperizia.
Oggi, però le cose vanno mio malgrado diversamente. Ascolto la Dark Polo Gang e ho una epifania. Brutta. Nel senso che ho sì questa manifestazione visionaria davanti agli occhi, ma quel che i miei occhi vedono (le mie orecchie sentono) è di una bruttezza rabberciante. Affascinante, a suo modo, per quello stesso fascino che ci costringe a fissare certe pustole o cicatrici, manco fosse la linea perfetta che scorre tra due chiappe.
Musica prodotta male, ma non volutamente male, semplicemente male, senza perizia, senza ricerca dei suoni, senza l’intento di creare un suono o di ricreare un suono, ma semplicemente usando mezzi spicci e usandoli con imperizia. Flow inesistenti, come di chi provasse a fare Free style senza sapere l’abc della metrica e del tempo. Assenza totale di un immaginario, sempre che non si voglia prendere per immaginario l’assenza di immaginario, privo di intenti nichilisti o nichilistici, semplicemente come presa d’atto che è quel che passa il convento. Niente spirito punk del Do It Yourself. Niente spirito hip-hop del rimarcare la propria superiorità artistica o, fosse vero, la propria consapevolezza (consciousness). Niente, solo musica demmerda.
Fine dell’aneddoto personale, vi sia di confronto sapere che a una certa i due tipi hanno ceduto al caldo e se ne sono andati, mentre noi tardoni nostalgici abbiamo levato le tende che era già buio. South Will Rise Again.
La Dark Polo Gang e i due libri, si diceva. Bene. Il primo libro cui sono dovuto ricorrere per farmi una ragione della Dark Polo Gang e del trap tutto, è Come funziona la musica, di David Byrne. Riprenderlo in mano è sempre esercizio utile, e già le prime pagine nelle quali spiega, con la genialità che tutti gli riconosciamo, come nel tempo sia stato il modo in cui si fruisce la musica, e anche il dove, ad aver influito nella scrittura della musica stessa, comincia a fornirci strumenti utili per la nostra opera improba. Questo seppur Byrne, il cui libro è stato scritto quattro anni fa, ma partendo da idee precedenti, fatichi a decodificare la scrittura al tempo dell’MP3 (quindi della musica fatta per essere suonata su dei lettori MP3), che a mio avviso è la vera chiave di volta del fenomeno trap.
La Dark Polo Gang incarna alla perfezione la musica dell’oggi, quella fatta per suonare sugli smartphone, non atta a ballare, come buona parte della musica popolare del Novecento, né per socializzare.
Nel momento in cui il supporto fisico ha lasciato spazio al download, prima, e allo streaming, oggi, la scrittura non poteva che fare i conti con la compressione. Prendete il passaggio di Come funziona la musica in cui con parole quantomai semplici Byrne ci spiega come certa musica rap sia concepita per l’ascolto in auto, con determinati impianti audio (nel libro addirittura mostrati fotograficamente).
Una modalità, quella, che richiede una scrittura che utilizzi musicalmente solo bassi potenti, e alti, spesso reiterati, lasciando che sia la voce del rapper a riempire tutto il resto dello spazio sonoro, lì dove in passato c’erano gli strumenti quali le tastiere, le chitarre, gli archi. Ecco, con passaggio all’odierno, cioè all’ascolto attraverso gli smartphone, tutto questo ha subito una accelerazione verticale, esponenziale.
La musica da compressa, come era avvenuto con il passaggio agli MP3, si è fatta addirittura distorta, tanto è schiacciata, e il Low-fi che lo strumento porta con se’ ha fatto sì che neanche si tenti più una rifinitura, dando per assodato che tutto suoni male. L’accelerazione che la fruizione in rete, lo streaming, ma anche Youtube, ha portato come dote, è poi una ulteriore frammentarietà dell’ascolto medio, con una soglia di attenzione sempre più bassa, la logica delle playlist a costruire il gusto personale e una conseguenza estinzione del concetto di fidelizzazione.
E qui arriviamo al secondo libro, che apparentemente con la musica trap nulla ha a che spartire, History di Giuseppe Genna. Un libro molto importante e anche molto complesso, di cui non intendo parlare nelle poche righe che rimangono di qui alla fine di questo articolo. Quel che però è nodo centrale del libro di Genna è il testo, e più nello specifico la presa di coscienza di come il testo inteso per come lo conosciamo noi, per come è da secoli in Occidente, è destinato a finire con l’ultima generazione nata e formatasi nel Novecento (quella di Genna e di chi scrive).
Questa consapevolezza porta Genna a mettere in discussione l’assunto di Bauman sulla società liquida, portando lo scrittore milanese a parlare di società nebulosa. Ecco, in questa idea di nebulosità, quindi di frammentarietà senza forma, in movimento ma senza un corso, di densità variabili e più in generale indefinibili, rientra perfettamente la musica della Dark Polo Gang e più in generale del trap.
Una musica che non ha un testo (non si sta ovviamente parlando di assenza di parole, ma di testo inteso come narrazione lineare) e che ha rinunciato, scientemente o meno, a creare o anche solo a avere un immaginario, rincorrendo semmai una estetica. Assenza totale di poesia, ma anche di consapevolezza di come in fondo sia la poesia a farci rimanere uomini. La Dark Polo Gang, quindi, ben incarna, ma stiamo parlando di una incarnazione simbolica, perché di incarnazione di qualcosa di nebuloso, e quindi privo di sostanza corporea si tratta, alla perfezione la musica dell’oggi, quella fatta per suonare sugli smartphone, non atta a ballare, come buona parte della musica popolare del Novecento, né per socializzare.
Se poi tutto questo discorso vi è parso troppo complesso e artificioso, potete semplicemente continuare a considerarla musica demmerda, non sbaglierete comunque.