L’archeologo Francesco Cuteri è un po’ il papà adottivo dell’antica Kaulon, a Monasterace marina, sulla costa ionica calabrese. Dal 1998, qui ha scavato ogni estate. Finché nel 2013, insieme a un gruppo di studenti italiani e argentini, sotto la sabbia vide comparire dei colori: rosso, nero, verde, blu e arancio. Erano il drago e il delfino del più grande mosaico di epoca ellenistica mai scoperto, che in poco tempo attirò l’attenzione degli esperti e dei giornali di tutto il mondo. Da quell’estate del 2013, ci sono voluti quattro anni prima di veder partire, lo scorso luglio, i lavori di messa in sicurezza dell’area archeologica. Nel frattempo – come avevamo documentato – il mare è arrivato fino alle mura della città, mentre in spiaggia i passanti collezionavano quello che veniva giù.
Oggi il parco di Kaulon, a cui è stato dedicato il prestigioso convegno internazionale di studi sulla Magna Grecia di Taranto, è diventato il simbolo della straordinaria e malandata archeologia calabrese. Bella e maledetta, sconosciuta e malconservata. Tra scarsa attenzione, improvvisazione, lungaggini burocratiche e finanziamenti a pioggia. «L’impressione», dice Cuteri, che ha girato la regione in lungo e in largo, «è che si sia lavorato male spendendo tanti soldi, che non hanno garantito la valorizzazione dei siti né hanno cambiato l’immagine della Calabria. Sono stati recuperati tanti luoghi, di epoche diverse, che non sono visitabili. Finora tutti i finanziamenti per il patrimonio culturale nella regione non hanno avuto alcun vincolo per garantirne la fruibilità». Tanto vale, continua l’archeologo, che «smettiamo di scavare. Che senso ha portare alla luce qualcosa che poi non viene valorizzata? Quel che si scava deve essere visitato e visitabile. Altrimenti meglio fermarsi e puntare su quello che si è già scoperto».
Finora tutti i finanziamenti per il patrimonio culturale nella regione non hanno avuto alcun vincolo per garantirne la fruibilità. Sono stati recuperati tanti luoghi che non sono visitabili. Se è così smettiamo di scavare. Che senso ha portare alla luce qualcosa che poi non viene valorizzata?
L’elenco degli esempi è lungo, tanto quanto le bellezze calabresi. Il parco archeologico di Sibari, riportato a miglior vita lo scorso febbraio con un finanziamento di 18 milioni di euro dopo l’esondazione del Crati del 2013, è un luogo separato dalla realtà intorno. Le auto gli sfrecciano accanto indifferenti lungo la 106, e alla (scarsa) segnaletica nemmeno si fa caso. A Capo Colonna, l’area dei reperti non è recintata: si entra e si esce quando si vuole. È qui che nel 2015 si consumò lo scandalo del foro romano ricoperto da una colata di cemento destinata a ospitare i devoti della Madonna. Nel museo del parco di Scolacium, immerso tra i fichi e gli ulivi di Roccelletta di Borgia, manca invece personale. E in pieno agosto può anche capitare che a tenere aperta baracca sia una sola stagista. Ma non è solo di Magna Grecia che è fatta la Calabria. Cuteri elenca luoghi sconosciuti ai più: «Pensiamo all’abbazia di Sant’eufemia a Lamezia Terme: non si può visitare. Se uno passa sulla Salerno-Reggio Calabria, legge sulla guida di questa struttura e decide di deviare, è tutto chiuso. Il Parco di Mileto? È aperto solo sabato e domenica. E ancora, Oppido vecchia: sono stati fatti tanti lavori, spesi tanti soldi, ma la zona non è per nulla valorizzata».
In Calabria al momento non esiste neanche un assessore alla Cultura. I giovani archeologi e architetti conservatori sfornati dalle università della regione se la passano tutt’altro che bene. «Se sei archeologo», dice Cuteri, «puoi lavorare tutt’al più sui cantieri come archeologia preventiva». E poi c’è la rincorsa ai finanziamenti e ai bandi che arrivano dalla Regione o dal ministero. «Soldi che servono spesso a garantire solo l’occupazione delle imprese. È arrivato il momento di mostrare un’attenzione che va al di là dei fondi stanziati e delle sceneggiate che si fanno alla Borsa del turismo di Paestum. C’è un bacino culturale straordinario a cui poter attingere, ma è inutile che andiamo a scavare e recuperare se poi non valorizziamo nulla».
In Calabria al momento non esiste neanche un assessore alla Cultura. I giovani archeologi e architetti conservatori sfornati dalle università della regione se la passano tutt’altro che bene
La stessa Kaulon, «la chiamiamo parco perché le vogliamo bene, ma ancora non è un parco», dice Cuteri. «C’è ancora tantissimo da fare». L’area è divisa in due dalla statale ionica e dai binari del treno. Il sovrapasso ferroviario non è mai stato costruito. E il percorso dal museo al sito è ancora frammentario. Finora, a Kaulon di soldi se ne sono visti ben pochi. Gi scavi si sono fatti per lo più con campi di volontariato. Cuteri scavava, trovava e poi insabbiava nuovamente per mettere tutto al riparo. In una Calabria in cui la Magna Grecia non è ancora un sistema attrattivo per il turismo culturale, ma tutt’al più il titolo per dare il nome a festival teatrali e cinematografici.
Approfittando dell’estate prolungata, sulla spiaggia di Monasterace le gru ora sono finalmente al lavoro. «A luglio è partito il cantiere per la protezione della linea costiera», spiega Alfredo Ruga, funzionario della Soprintendenza calabrese. Un finanziamento regionale da 2,5 milioni di euro, che si aspettava da tempo. «Finiti i lavori di protezione della costa, partiranno poi quelli finanziati con 700mila euro dal ministero della Cultura per la messa in sicurezza della duna e la copertura delle terme ellenistiche. Entro il 2018 il progetto di difesa di Kaulon dovrebbe essere completato».
E così i visitatori potranno ammirare finalmente i draghi e i delfini scoperti da Cuteri, che ora sono ancora nascosti sotto la sabbia, per evitare che vento, sole e pioggia possano usurarli. «Sogno un parco essere un luogo che accoglie, dove chi si ferma possa far visita all’area archeologica e poi magari fare il bagno e mangiare in un’area di ristoro», dice l’archeologo. «Kaulon è una fucina incredibile, destinata a diventare un punto di riferimento della ricerca e della didattica sulla Magna Grecia».