Saranno le zone franche a far sviluppare finalmente il Sud? Riusciranno questi nuovi strumenti – previsti dal Decreto Sud da poco approvato – a dimostrare che l’Italia ha trovato il modo di usare in modo efficiente – o se vogliamo a non sprecare un’altra volta – i fondi statali per lo sviluppo? Sono domande che, nei giorni successivi ai referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto, acquisiscono una nuova urgenza. C’è da dimostrare che il famoso residuo fiscale delle regioni più ricche – di cui le due regioni chiedono di trattenere una buona parte – non sia semplicemente elargito per assistenzialismo, come nella abrasiva e provocatoria vignetta leghista che vedeva le uova d’oro della “gallina del Nord” finire nel cesto tenuto in mano da una matrona del Mezzogiorno.
Le zone economiche speciali, o Zes, sono una novità in Italia, dove c’è stata l’eccezione storica della zona franca del porto di Trieste, a sua volta ora oggetto di un rilancio. Sono però diventate uno strumento ormai diffusissimo in tutto il mondo per attrarre investimenti internazionali. Sono nette le cifre che ha raccolto il settimo rapporto annuale della Srm (società di ricerca del gruppo Intesa Sanpaolo), “Le relazioni economiche tra l’Italia e il Mediterraneo”. Se nel 1997 il numero di Zes era pari a circa 845 in 93 Paesi, si legge, tale valore è attualmente salito a circa 4mila e coinvolge circa 135 Paesi. Particolare concentrazione c’è in Asia e Pacifico e nelle Americhe. La Cina, a partire dagli anni Novanta ha riempito le sue coste di tali zone, che hanno permesso tra l’altro l’esplosione di aree industriali come quella di Shenzen, dove il 40% del Pil è imputabile all’output di aziende a capitale straniero. Ce ne sono sempre di più anche in Europa, a partire dalla Polonia. In totale le 4mila Zes nel mondo (ce ne sono di sei diversi tipi) impiegano 68,4 milioni di persone e generano un valore aggiunto derivante dagli scambi di 850 miliardi di dollari, secondo stime della Banca Mondiale.
Ora è il turno dell’Italia, dove l’obiettivo è l’insediamento di nuove imprese, oltre che lo sviluppo delle imprese già operanti. L’incentivo sarà quindi rivolto anche a chi è già nel territorio, purché faccia degli investimenti aggiuntivi. Per il triennio 2018-2019-2020 anni sono stati stanziati 204,45 milioni di euro: 25 il primo anno, 31,25 il secondo, 150,2 il terzo. L’incentivo è principalmente un credito di imposta sui beni acquisiti entro il 2020, nel limite massimo, per ciascun progetto di investimento, di 50 milioni di euro. Sono poi previste procedure semplificate per accelerare i termini procedimentali e gli adempimenti burocratici. Gli incentivi dovrebbero finire dopo alcuni anni e andranno restituiti se un’azienda non rimane nella zona economica speciale per almeno sette anni. Ma il punto chiave che differenzia la misura da quelle del passato è che tutte le nuove zone dovranno sorgere attorno a dei porti della rete transeuropea dei trasporti (TEN-T). Ci dovrà essere un piano di sviluppo strategico e dovrà essere individuato un “soggetto per l’amministrazione”, ossia un comitato di indirizzo composto dal presidente dell’autorità portuale e da rappresentanti della regione, della presidenza del Consiglio dei ministri e del ministero delle Infrastrutture e trasporti. Questi sono alcuni dei punti fermi del decreto Sud (dl 91/2017), approvato lo scorso giugno e convertito in legge il 3 agosto. Il resto, in attesa dei decreti aggiuntivi, è fatto di rumors. Le Zes italiane alla fine dovrebbero essere otto: Gioia Tauro, in Calabria; Napoli e Salerno; Brindisi; Taranto (con Zes interregionale Puglia-Basilicata); Catania-Augusta; Palermo; più una in Sardegna e una per l’area Abruzzo-Molise.
Le zone economiche speciali nel mondo sono passate in 20 anni da 845 a 4mila, con un valore aggiunto derivante dagli scambi di 850 miliardi di dollari. Ora è il turno dell’Italia. Ci saranno 8 zone speciali: Gioia Tauro, in Calabria; Napoli e Salerno; Brindisi; Taranto (con Zes interregionale Puglia-Basilicata); Catania-Augusta; Palermo; più una in Sardegna e una per l’area Abruzzo-Molise
Funzionerà? Per capirlo il rapporto di Srm parte da lontano, con una lista impietosa dei fallimenti messi in piedi a partire dagli anni Novanta: i vari Patti Territoriali, i Contratti d’Area, i Contratti di Programma, i PIt, ossia Progetti Integrati Territoriali. Non tutti furono inutili, basti pensare che i contratti di programma portarono allo sviluppo della Fiat a Melfi, della Natuzza in Puglia e di Unica, un consorzio di Pmi calzaturiere in Campania. Ma, spiega Alessandro Panaro, responsabile Area di ricerca Maritime & Mediterranean Economy di Srm, moltissimi progetti si impantanarono in due tipi di sabbie mobili: quella della lentezza burocratica e quella della posizione geografica. Per incentivare aree depresse, in sostanza, si spinsero gli investimenti in aree montagnose o comunque isolate, che portavano necessariamente delle inefficienze: finiti gli incentivi l’azienda faceva le valigie.
La differenza, secondo Panaro, è proprio il ruolo centrale dei porti, che dal punto di vista logistico sono in teoria molto più avvantaggiati. Perché le cose funzionino, spiega però il rapporto Srm, è necessario ribaltare la prospettiva: i porti devono essere efficienti (un tema che coinvolge anche tutta l’area dei retroporti, dove le merci si smistano e si indirizzano su ferrovie e strade) e l’incentivo può dare una spinta; mentre affidarsi al solo incentivo sarebbe illusorio. Inoltre, aggiunge Panaro, ci sono due fattori fondamentali: che la burocrazia rapida nella quotidianità e non solo sulla carta e che si facciano delle scelte. «Ci sono tre condizioni perché non sia un fallimento: i porti interessati dalle Zes non devono essere troppi; l’uso degli incentivi deve essere controllato; e bisogna avere il coraggio di fare scelte settoriali. Le zone hanno vocazioni produttive diverse e i porti sono già attrezzati per diversi tipi di merci, dall’agroalimentare all’autotrasporto». Il recente passato, spiega, è stato caratterizzato da una «concorrenza scoordinata tra porti», che hanno avuto come primo obiettivo quello di rubare traffico ai concorrenti, senza avere una strategia di lungo respiro, che li portasse ad esempio ad attrezzarsi per l’approdo delle nuove grandissime navi da più di 8mila Teu.
Per il triennio 2018-2019-2020 anni sono stati stanziati 204,45 milioni di euro. L’incentivo è un credito di imposta sui beni acquisiti, nel limite massimo di 50 milioni di euro. Gli sgravi dovrebbero finire dopo alcuni anni e andranno restituiti se un’azienda non rimane per almeno sette anni. Ma il punto chiave è che tutte le nuove zone dovranno sorgere attorno a dei porti della rete transeuropea dei trasporti
Come esempi e modelli di Zone economiche speciali che hanno trovato una specializzazione produttiva il rapporto Srm cita l’area di TangerMed in Marocco e la zona speciale del Canale di Suez, in Egitto. Il porto di Tangeri è ha visto un investimento dal 2002 di oltre 7 miliardi di dollari. Il suo fulcro è l’area produttiva della Renault, che qui dal 2012 assembla metà di tutte le auto a marchio Dacia (un milione di auto già prodotte in 5 anni). L’area principale si chiama Tanger Automotive City (Tac), dove ci sono anche altre 40 imprese della componentistica di auto. Ma ci sono altre quattro aree, nella stessa zona franca, che danno spazio a imprese dei settori automotive, aeronautico e tessile, un parco industriale e logistico, una zona dedicata a servizi in outsourcing, come i call center. I due terminal principali sono gestiti rispettivamente da una società tedesca e da una danese, un altro da una società pubblica marocchina. La vasta zona del Canale di Suez ha invece una forte specializzazione nell’agroalimentare e nell’alta tecnologia. Su quest’ultimo aspetto pesa il peso sempre maggiore assunto dalle imprese e dalle società di navigazione e logistica cinesi. Il grande motore di sviluppo di queste zone franche del Mediterraneo è infatti lo sviluppo cinese e il grande progetto One Belt One Road (o nuova Via della Seta) con il suo investment plan da mille miliardi di dollari per l’area del Mare Nostrum.
La domanda è se il Meridione italiano riuscirà a usare le nuove zone economiche speciali per agganciare questo sviluppo di commerci e piattaforme logistico-produttive a trazione cinese. C’è da augurarselo, visto che il bilancio dell’uso dei circa 350 miliardi di euro di fondi comunitari degli ultimi 20 anni o poco più è largamente deludente. E c’è da sperarlo perché, come sottolinea Panaro, se decine di imprese multinazionali si insediano in un’area il beneficio non è solo del territorio o del Meridione ma di tutto il Paese. La volontà di accontentare tutte le regioni concedendo ben otto zone franche fa già porre alcune domande. La capacità di tagliare davvero la burocrazia ed effettuare scelte che scontentino qualcuno è davvero tutta da dimostrare. Ma il messaggio che è arrivato da Lombardia e Veneto è che di margini per grandi speranze rimpiante ce ne sono sempre meno.
Il grande motore di sviluppo di queste zone franche del Mediterraneo è lo sviluppo cinese e il grande progetto One Belt One Road (o nuova Via della Seta) con il suo investment plan da mille miliardi di dollari per l’area del Mare Nostrum