Lucio Battisti? Meglio della vostra musica compressa che non dice nulla

Il cantante di “Emozioni” a 19 anni dalla morte, con il cofanetto iperanalogico Masters torna prima nella Top 10 degli album venduti. Un cofanetto da sentire con lo stereo, casse a palla o un paio di cuffie come Dio comanda. Il contrario della musica “schiacciata” da sentire con lo smartphone

Forse è il caso di tirare fuori le chitarre dagli armadi. Ecco il sottotitolo ideale di questo pezzo. Che sarà lungo e confuso. Ma soprattutto sarà frammentario. Mettetevi comodi. Partiamo dall’ultima classifica di vendite degli album. Uno guarda la Top 10 e si trova proiettato in un mondo distopico, dove esistono due tribù piuttosto diverse tra loro, che si alternano al potere.

Primo è infatti Lucio Battisti, a diciannove anni dalla morte, con il cofanetto iperanalogico Masters. Una operazione quasi luddista, al limite dello steampunk, nella quale la Sony, per una volta nei panni dei buoni, ha ritirato fuori i master del titolo dal cassetto, li ha tirati a lucido utilizzando le migliori tecnologie a disposizione, riconsegnandoci un mega ritratto dell’artista a partire dal suo essere non solo uno dei più grandi compositori italiani del Novecento, ma anche un ottimo musicista attento ai suoni come pochi, ieri e l’altroieri.

Un cofanetto, quindi, in cui si sentono sfumature finora inedite, da ascoltare con lo stereo, sì, lo stereo, con le casse a palla o un paio di cuffie come Dio comanda. Esattamente il contrario di quello che la discografia, anche e soprattuto la stessa Sony, sta facendo altrove, cioè musica schiacciata, compressa, fatta male con macchine, ché tanto poi la si sente con strumenti non adatti all’uso, gli smartphone in testa. Una vittoria, questa, della vedova Battisti, da sempre contraria al fatto che Battisti finisca online nei canili di streaming (oltre che finisca nelle pubblicità, tipo “Ci vorrebbe un amico” di Venditti diventata “CI vorrebbe un’amica”, nello spot di Amica Chips). Una vittoria anche di chi ama la musica, e ritiene che la levata di scudi contro la vedova altro non sia che una megamarchettona fatta a Mogol, in effetti ordita da chi di marchette se ne intende anche parecchio. Musica alta, seppur popolare, fatta per chi vuole ascoltare musica altra, astenersi bimbiminkia (dentro, non solo anagrafici).

Torniamo alla classifica, vi avevo avvertito che sarei stato confuso. Al secondo posto c’è Caparezza col suo Prisoner 709. E siamo ancora dalla parte dello steampunk. Un album che agli orecchi distratti di certi discografici sarà sembrato musica prog, molto suonato, molto pieno di strumenti, molto pieno di parole. Molto, ma forse anche troppo. Le chitarre, un album di uno che viene catalogato come un rapper pieno di chitarre, seppur chitarre tirate, non certo alla Frank Ocean. Che siano quelle distorte del brano omonimo o quelle funky del ritornello di quel gioiello di Ti fa stare bene. Terzo c’è Coez, che meriterebbe un articolo a parte. Non perché ci piaccia particolarmente, anzi, ma perché dimostra una volta per tutte come la discografia sia morta, capace di muovere traffico e sbigliettamento da solo, abbandonato anche dalla Carosello, dopo tutti gli altri. In una divisione tra buoni e cattivi, consentitemi di giocare ancora un po’, lui sarebbe altrove, intento a farsi i cazzi suoi.

Quarto arriva Liam Gallagher, proprio colui che giorni fa ha gridato il lamento della fine delle chitarre (e se vi andate a cercare in rete il video in cui si prepara il the in camerino, anche delle rockstar). Ecco, superato il paradosso di sentire uno che non sa suonare la chitarra che lamenta che i giovani non suonino la chitarra, forse sarebbe il caso di concentrarsi su come la progressiva scomparsa delle chitarre dai dischi abbia in qualche modo omogeneizzato la musica, mettendoci sotto gli occhi un omogeneizzato decisamente poco appetitoso. Mentre stiamo ancora piangendo Tom Petty, uno che le chitarre le sapeva ben usare e che sulle chitarre ha costruito pilastri musicali della nostra cultura, portando avanti certo discorso psichedelico di un Brian Wilson o di un Roger McGuinn, con un pizzico di droga in corpo in meno del primo e di spirito solidamente southern del secondo, ecco, mentre ancora lo stiamo piangendo viene da chiederci come sia possibile che, proprio oggi che una scheda audio rischia di costare più di una chitarra elettrica media con amplificatore, i giovani non si lascino più ammaliare dalle sei corde, vittime della fascinazione per quei suonini vacui spacciati per moderni.

Perché un bel romanzo è un bel romanzo, sia che sia di carta sia che sia un ebook, alla stessa maniera c’è bella musica e brutta musica, e buona parte di quella prodotta oggi è musica brutta, demmerda. Lo è perché i supporti per cui è pensata non tengono conto della possibilità di lasciare spazio a sfumature che nella musica sono fondamentali.

Fermi, non scambiatemi per un nostalgico, andatevi a sentire le percussioni fin qui mai ascoltate in “Emozioni” nella versione contenuta in Masters, contate fino a dieci e tornate qui a dirmi che sono contro il progresso. Sto parlando di musica, e di musica bella, contrapposta alla musica brutta, in molti casi neanche musica. Perché un bel romanzo è un bel romanzo, sia che sia di carta sia che sia un ebook, alla stessa maniera c’è bella musica e brutta musica, e buona parte di quella prodotta oggi è musica brutta, demmerda. Lo è perché i supporti per cui è pensata non tengono conto della possibilità di lasciare spazio a sfumature che nella musica sono fondamentali.

Perché considerando che le nostre canzoni non sono appoggiate sul ritmo, checché se ne dica, perché alla SIAE e ai suoi corrispettivi europei e occidentali continuiamo a consegnare partiture in cui si parla di melodia, appare evidente che non sviluppare l’armonia, mandare a puttane la dinamica, e più in generale lasciare che l’urgenza primaria non sia l’innovazione ma la clonazione rimane azione che punta al ribasso come poche volte era successo in passato. Come dicono quelli che hanno studiato, se abitui il palato al junk food, poi si convincerà che quelli sono i sapori buoni, incapaci di riconoscere un tartufo o anche solo una verdura dell’orto.

Le chitarre, dicevamo. Pure Eric Clapton si è ritirato, dicendo che ormai la chitarra è oggetto di modernariato. Ma così non è. Non lo sarà finché ci sarà chi è disposto a prenderne una e a strimpellarci su tre accordi. Magari poi a campionarli e suonarli con le macchine, eh, le operazioni del passato passato fatte da Teenage Fanclub e De La Soul con quella Fallin’, contenuta nella stellare colonna sonora diJudgment Night”, cover anomala di Free Fallin’ proprio di Tom Petty, o dai Public Enemy con Stephen Stills, per “He Got Game”, nella colonna sonora del film omonimo di Spike Lee, sono chiaro esempio di una via che di esempi ne ha espressi molti altri. Esempi che vanno oltre, con le chitarre che rimangono evocate, non espresse, ma che come certi spiriti im sedute particolarmente riuscite, sono visibili e forse anche tangibili, presenti fisicamente nella scrittura, come nei riferimenti.

Recentemente, proprio in queste ore, per dire, un duo italiano che opera nel campo del rap ha tirato fuori un brano, poi contenuto nell’EP Inverno Ticinese, che dalla scrittura articolata di Lucio Battisti muove i suoi passi, dichiaratamente. Nessuna chitarra, va detto, ma una scrittura che parte da lontano, dalla tradizione. Parlo dei ComaCose e della loro “Anima Lattina”, brano che appunto tiene conto di armonia, dinamica, chiaramente cercandone una strada nei suoni di oggi, e anche nelle tecnologie di oggi. Ripeto, non di luddismo si tratta, semmai di operazione equiparabile allo steam-punk, guardare al passato con gli occhi del futuro, o forse sarebbe meglio dire a un futuro alternativo in cui il passato sia ancora presente.

Cortesemente, indicatemi anche dove sta la carica rivoluzionaria di questa musica demmerda, indicatemi che potere, anche mero potere di cristallizzazione artistica, questa musica compressa vorrebbe sovvertire. Riprendete quelle cazzo di chitarre e provate a capire cos’è una melodia, cos’è la melodia, cos’è la dinamica di un brano, prestate cura ai suoni, stupitevi a capire che la musica la potete ascoltare anche bene, laddove ne vale la pena.

Ovviamente, a questo punto, ci sarà chi si straccerà le vesti gridando lai di dolore, perché queste sono le stesse parole sentite a suo tempo da parte di chi criticava il punk, o il rap, quando si affacciò per la prima volta. Dai, siate alti, per una volta, tornate indietro nel tempo, citate piuttosto Schoenberg, citate Stravinskij coi balletti di Nijinskij. Poi, cortesemente, indicatemi anche dove sta la carica rivoluzionaria di questa musica demmerda, indicatemi che potere, anche mero potere di cristallizzazione artistica, questa musica compressa vorrebbe sovvertire. Chi vorrebbero mai shockare, che lettura dare del presente. Anche perché, Dio mi perdoni, niente mi appare più incastonato tra le rotelle dei meccanismi di sistema che il seguire l’onda senza neanche provare a stare a cavallo di una tavola da surf. Questa robaccia compressa e schiacciata è il sistema, ne è al tempo stesso espressione e frutto, come potrebbe mai essere la rivoluzione, la si intenda come virus o come shock. Una scorciatoia, una manomorta in autobus laddove potrebbe esserci una lunga storia d’amore e sesso.

Le chitarre, quindi, e la classifica. Quinti e sesti sono Gue Pequeno e David Gilmour, che se uno lo volesse scrivere come sketch comodo non farebbe manco ridere tanto risulta surreale. Vero che Gilmour ha presumibilmente detto tutto quel che aveva da dire, come è vero che Pequeno ha dato il massimo di se’ nelle storie di Instagram, l’uccello in mano, ma anche solo l’idea che ci sia più gente che compra album di Gue Pequeno rispetto a quanti non acquistino il live a Pompei del signor Gilmour basterebbe a spingerci a evocare l’estinzione della razza umana. In nostro supporto la consapevolezza che no, non c’è poi così tanta gente che compra gli album di Gue Pequeno, ma le classifiche le fanno usando anche i dati dello streaming, ragion per cui poi Coez è al terzo posto e in classifica ci troviamo anche Ghali, Willie Peyote, Rkomi. La famosa divisione a tribù di cui si parlava in esergo di questo articolo. Le chitarre contro la musica demmerda, la bella musica contro la brutta musica.

Battisti è primo con un album che ripropone alcuni dei suoi classici, a fianco di brani ironicamente considerati minori, il tutto presentato al Top della masterizzazione, Battisti come non lo abbiamo mai sentito. Per contro Clapton si è ritirato, Liam Gallagher è costretto a farsi il the da solo in camerino. Riprendete quelle cazzo di chitarre e provate a capire cos’è una melodia, cos’è la melodia, cos’è la dinamica di un brano, prestate cura ai suoni, stupitevi a capire che la musica la potete ascoltare anche bene, laddove ne vale la pena. È vero che la musica è da sempre espressione dell’epoca in cui si manifesta, e che stiamo evidentemente vivendo in un periodo di merda, ma provate almeno a cambiare le cose, o a cambiare mestiere.