Non sarà mai più come una volta. Quando si suona, o si ascolta, un brano musicale di Mozart o di Beethoven, con ogni probabilità, si sta ascoltando qualcosa di diverso rispetto a ciò che sentivano (o pensavano) loro. Le sensibilità sono cambiate, certo. Ma soprattutto sono cambiati gli strumenti: dal clavicembalo del 1400 al pianoforte di oggi l’evoluzione è stata enorme. E non è da escludere che, lungo la strada, si sia perso qualcosa.
Il pianoforte si è imposto intorno al 1760-1780. Superò il clavicembalo e altri strumenti a tastiera perché più versatile: poteva emettere un suono sia “piano” che “forte”. Dopo secoli di monotonia e corde pizzicate, era una rivoluzione. Il nuovo effetto però non era facile da ottenere, richiedeva anzi una certa manualità. Il suonatore doveva applicare e togliere, al momento giusto, sordine di cuoio, o premere pulsanti posizionati in luoghi bizzarri, o addirittura azionare pedali a ginocchio. A seconda dei modelli cambiava la meccanica. E le composizioni dovevano tenerne conto: le musiche, in sostanza, erano limitate anche dalle possibilità tecniche dello strumento.
Oggi, con la nuova generazione di pianoforti, questi problemi non esistono più. Volumi e timbri sono affidati alla sensibiltà delle dita del musicista, non ci sono sordine da togliere o da mettere, né astrusi pedali da azionare con il ginocchio. Il pianoforte come lo conosciamo noi è stato perfezionato dal 1870 in poi. Cioè quando Mozart, Beethoven e Chopin erano già tutti morti. E allora la domanda si pone: ha senso affrontare le più complesse opere scritte da Beethoven per tastiera su uno strumento pensato e costruito decenni, se non secoli dopo il suo periodo?
Non è una sciocchezza. Professionisti e appassionati sanno benissimo che il termine “sforzando” (enfasi improvvisa e/o forte), impiegato dal compositore tedesco in alcune sue partiture, oggi come oggi non significa nulla di preciso. Non esiste uno sforzando nei pianoforti attuali. Al massimo, si possono fare note più alte.
E nemmeno i tentativi archeologici di suonare musiche dell’epoca su strumenti dell’epoca non possono dirsi del tutto convincenti. Chopin amava il suono dei pianoforti Graf, costruiti da una allora nota famiglia viennese. Ma un Graf, riparato e rimesso a nuovo oggi, darebbe lo stesso suono? Siamo sicuri? Ci hanno provato con Mozart, restaurando il suo fortepiano Walter (uno di quelli che il musicista austriaco considerava “perfetti”) nel 2012. Chi ha ascoltato quelle esecuzioni, con ogni probabilità, ha sentito i suoni più simili possibili a quelli che ascoltava Mozart. Ma anche in questo caso: come si può immaginare e riprodurre la tecnica, le scelte stilistiche, le scorciatoie con cui si affrontavano i problemi del periodo (ad esempio, il fatto che quegli strumenti si scordavano in fretta, non mantenevano la stessa costanza nel suono)?
La musica è una combinazione tra ciò che si può fare e ciò che si vuole fare. Le due cose sono collegate, in un rapporto di causa-effetto reciproco. Le scelte compositive erano dettate dalle possibilità più o meno estese dei nuovi strumenti (quelli che a noi appaiono classici, allora erano sperimentali) e dal desiderio di portarle il più possibile al limite. Da questo aspetto non si può prescindere. E proprio per questo motivo ogni tentativo di riportare in vita la musica di una volta è destinato a fallire. Si potrà anche, in modo artificioso, ricreare le condizioni originarie di uno strumento antico. Ma le possibilità note all’orecchio di oggi sono molto più grandi, diverse, varie e impensabili rispetto a quelle di allora. E da qui non si scappa.