«Tra le misure allo studio ce ne sono alcune che non piaceranno alle banche. Sono quelle relative al “prudential backstop”. Sono quelle, ossia, che forzano le banche a vendere i crediti deteriorati». Era il 15 settembre, all’Npl Meeting di Venezia, e le parole di Mario Quagliariello dell’Autorità bancaria europea (Eba) erano state profetiche, alla luce delle reazioni fortissime alle proposte della Bce di questi giorni. Molto meno profetiche si sono rivelate le parole rassicuranti che Quagliariello, che all’Eba è capo dell’unità di Analisi dei rischi, aveva aggiunto davanti alla platea di investitori e banchieri: «Abbiamo capito che avere un orizzonte temporale netto (per la vendita degli Npl, ndr) è negativo». L’addendum alle linee guida della Bce sui crediti deteriorati, presentato il 4 ottobre dalla Vigilanza bancaria della stessa Bce, prevede proprio un sistema automatico di svalutazione delle sofferenze, con tempi netti. Le banche dovrebbero usare il capitale a copertura del 100% del valore dei crediti deteriorati dopo sette anni dall’iscrizione in bilancio delle sofferenze con garanzia e dopo soli due anni per quelle senza garanzia. Poco dopo che il comunicato stampa su questo addendum è stato rilasciato, la bomba è scoppiata: prima in Borsa, con la caduta dei titoli bancari italiani, e poi nei Palazzi. La levata di scudi è stata unanime da Abi, Banca d’Italia, Confindustria, governo e dal segretario del Pd Matteo Renzi («scelta folle e suicida»).
Anche se le nuove regole varrebbero solo per i nuovi crediti deteriorati che si concretizzerebbero dal 2018, l’effetto non è da sottovalutare. Gli analisti di Equita hanno calcolato che il costo dei nuovi accantonamenti sarebbe di 1,3 miliardi all’anno per l’intero sistema. Non una cifra stratosferica, alla luce delle cifre viste nell’ultimo anno in Italia, ma tale da far prefigurare un effetto negativo sul credito erogato alle famiglie e imprese, proprio mentre la ripresa economica sta diventando un po’ più robusta. Un piccolo credit crunch, peraltro, è già in corso e, come mostrano i dati di Banca d’Italia sullo stock dei finanziamenti, riguarda soprattutto quelli a breve termine.
Che la preoccupazione sia alta in Italia è ovvio: sebbene le nuove sofferenze siano tornate su livelli molto bassi, rimane l’handicap di un sistema giudiziario molto lento. Ci sono state delle riforme negli ultimi anni (per esempio è possibile far scendere la base d’asta in maniera più consistente dalla prima seduta e si può sostituire per giusta causa il curatore che in due anni non liquida gli attivi), i cui effetti, tuttavia, finora si sono sentiti solo parzialmente.
Prima però di scendere in trincea per resistere alle truppe della Vigilanza, guidate Danièle Nouy, sarebbe il caso di fare un lungo respiro e cercare di affrontare il tema a mente fredda. Uno spunto lo hanno dato proprio i discorsi dei rappresentanti di Bce ed Eba al meeting veneziano. Il messaggio è stato chiaro: gli Npl sono un motivo di preoccupazione per la stabilità finanziaria, siamo in presenza di chiari fallimenti di mercato – poca informazione, pochi compratori – e la soluzione non può che passare da un set di strumenti. «Non esiste un solo proiettile magico», ha detto sempre a Venezia John Fell, vice direttore generale dell’area Macroprudential Policy & Financial Stability della Banca centrale europea. Poco dopo il funzionario della Bce ha elencato l’elenco di strumenti necessari da mettere in campo (si veda la slide qui sotto, qui l’intera presentazione).
Una vera battaglia, oggi, dovrebbe partire dalla pretesa che tutte le riforme previste dalla Bce si facciano assieme, per evitare che una soluzione di sistema, che eviti dissanguamenti da parte delle banche, arrivi solo dopo che i dissanguamenti siano effettivamente avvenuti. Se dalla Bce è prevista una bad bank, che la si faccia partire insieme alle nuove regole per la gestione degli Npl
Si parte dall’internal work out, ossia il lavoro interno di gestione delle sofferenze che deve essere eseguito dalle banche. SI prosegue con gli “asset protection scheme” e le “securization”, che sono accordi di condivisione del rischio, generalmente con la garanzia statale. In Italia, per capirsi, sono le Gacs, usate finora per la Popolare di Bari, per Mps e per Carige. Si approda a una “piattaforma per le transazioni”, in cui i crediti deteriorati siano venduti direttamente agli investitori, evitando costi di negoziazione e rendendo più trasparenti le informazioni relative alle garanzie connesse ai crediti. In mezzo a tutto questo catalogo, però, si ritrova anche un ente scomparso dopo l’entrata in vigore della direttiva sul bail-in: l’Asset management company (Amc). Ossia una bad bank di sistema. Vale a dire una società veicolo che si accolli, come è avvenuto in Spagna a partire dal 2012, i crediti deteriorati dalle banche e si prenda il tempo necessario per piazzarli senza svenderli.Non dovrebbe esserci una sola bad bank europea, come invece aveva proposto l’Eba qualche mese prima con il suo presidente Andrea Enria, ma ce ne sarebbe una per Stato. Tutte queste Amc dovrebbero però agire dentro un quadro regolatorio previsto da un “blueprint” europeo. A occhio, i tempi sono sembrati lunghi, così come lunghi sono apparsi quelli per rendere operativa la nuova piattaforma di scambio.
Una vera battaglia, oggi, dovrebbe partire dalla pretesa che tutte queste riforme si facciano assieme, per evitare che una soluzione di sistema, che eviti dissanguamenti da parte delle banche, arrivi solo dopo che i dissanguamenti siano effettivamente avvenuti. Il tempo guadagnato dovrebbe essere usato per riformare in maniera più incisiva il sistema giudiziario, per favorire ulteriormente gli accordi extragiudiziali per il recupero degli immobili posti in garanzia e per affinare gli incentivi contabili e fiscali per chi cede le sofferenze. Sono le riforme strutturali a cui sono chiamati gli Stati e che si devono accompagnare al lavoro di smaltimento interno da parte delle banche (in parte già iniziato con risultati notevoli, come a Venezia hanno mostrato le testimonianze di Bper e Banco Bpm). È bene che diventino una priorità per una politica e un sistema economico che, con le dovute eccezioni, è più a suo agio con la denuncia vittimistica che con la ricerca di soluzioni efficaci.
Anche se vale solo per i nuovi crediti deteriorati, quelli che si concretizzerebbero dal 2018, l’effetto delle svalutazioni automatiche per gli Npl non è da sottovalutare. Il costo dei nuovi accantonamenti sarebbe di 1,3 miliardi all’anno per l’intero sistema. Costi che avrebbero un effetto negativo sul credito erogato alle famiglie e imprese, proprio mentre la ripresa economica sta diventando più robusta