Il bastone. Né zuppa né panbagnato, ma una pappina atta a épater le bourgeois, dove stagnano i rospi della noia. Si fa fatica ad arrivare al fondo di Bacio feroce, Saviano 11 anni dopo Gomorra. Troppa ferocia? Magari. 25 anni dopo Le Iene e 90 anni dopo la nascita di Lucio Fulci, la ferocia di Saviano è superficiale, un mazzo di biscottini Plasmon per lettori alle prime poppate. Alla fine, in fondo – dopo tutta la fatica per arrivare in fondo – ci si affeziona pure a Nicolas detto ’o Maraja, lo stallone della paranza, a Tucano e a Lollipop che si chiavano, un po’ perplessi, Esterina, la trans, “era bellissima”, “è una fata”, e a tutti quei bimbi disadattati che guadagnano un sacco con lo spaccio, che sono assetati di potere o semplicemente annientati dal niente. Quella ferocia dispensata a larghi tratti, del tutto superficiale – teste mozzate, una manciata di omicidi, spergiuri, soprusi e bastonate – fa l’effetto di piume di struzzo per rimbambire il lettore ‘televisivo’, quello che garba a Saviano. Per il resto, la faccenda è semplice. Saviano non è un giornalista. Saviano non è uno scrittore. Se fosse un giornalista, senza scomodare i santi – chessò, A sangue freddo di Truman Capote o I racconti della Kolyma di Varlam Salamov – Saviano racconterebbe i fatti così come sono. Usando le strategie del giornalismo. Scrittura violenta, caustica, che va subito al cuore, che mescola abisso e mezzogiorno, sterco e rose. Ma Saviano non è un giornalista. Come mai? Ora vi dico come vive un giornalista. Un giornalista non ha padrini né padroni, non ha la scorta (e smettetela, nella bio savianesca, di scrivere ciò che tutti sanno, “dal 2006 vive sotto scorta in seguito alle minacce dei clan che ha denunciato”, che c’importa ai fini dell’attività da romanziere, artistica, di Saviano? Mica di Dostoevskij scrivono, per dire, è stato condannato a morte dallo zar ed è stato in prigione per un tot di anni), spesso non è neppure iscritto all’ordine, non ha i soldi per pagarsi i corsi e diventare professionista, e per fare il suo sporco mestiere – giornalismo = rimestare nella merda che è l’uomo – gli danno dai 3 ai 10 euro ad articolo. Se è una ‘firma’ si arriva anche a 20 euro, una fortuna. Il giornalista senza padroni né padrini esercita la professione nei bassifondi, tra la rissa dei giornali locali, mette in luce le piccole e grandi corruzioni – e collusioni – della politica del paese suo. In cambio, privo di tutela giudiziaria, si becca querele preventive di diffamazione, minacce a sé e alla famiglia. Ho visto Sindaci pretendere un colloquio con direttori di giornali ed editori allo scopo di minimizzare la carriera di un giornalista di quartiere. Il poveraccio prima subisce l’improvvido ‘aggiustamento’ dei suoi pezzi, poi gli alleggeriscono il titolo, poi gli dicono che è bene si occupi di altro. I ‘colleghi’ sono troppo impegnati a scrivere il loro, i politici girano il muso: d’altronde, il buon giornalista mena dove c’è da menare, non guarda la patente politica, uno scocciatore in meno fa comodo a tutti. Eppure, ecco, al giornalista che quotidianamente scava la rogna dei politici locali non affidano una trasmissione televisiva. In effetti, la camorra è un brand, il povero giornalista vessato per misere ruberie locali è uno scemo, un poveraccio. Saviano, però, non è neppure un romanziere. Cosa fa un romanziere? Parte da un dato di fatto – nel caso suo, la paranza – traendo l’universale. Esempio: a pagina 217 Saviano si concede un pensierino profondo. “Il bambino non è bambino, a Napoli. Il bambino è criaturo. […] Tutto i bambini del mondo si credono immortali. Qualunque neonato appare ai genitori come un libro dalle pagine bianche su cui il futuro vergherà una storia che sperano migliore della loro. Le creature di Napoli, però, quel tempo non ce l’hanno”. Sociologia spiccia. Roba che potremmo dire dei bambini delle favelas di São Paulo, dei bambini cresciuto a Baggio o a Quarto Oggiaro, a Milano, dei bambini di Abuja o di Lagos, Nigeria, dei bimbi come me, cresciuti nella periferia omerica e omertosa di Torino. Cerco di farmi capire. Nei Fratelli Karamazov c’è una scena in cui Dostoevskij parla proprio della “creatura”, forse Saviano l’ha ricalcata, chissà. Nella scena Dmitrij Karamazov precipita in un sogno. Vede gente che soffre ingiustamente, ingiustificatamente. Madri che piangono reggendo i figli, le ‘creature’. Dmitrij, nel sogno, in mezzo all’orrore, ha uno scatto: “Dimmi, perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? Perché la steppa è desolata? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché sono anneriti dalla miseria? Perché non danno da mangiare a quel bambino? Perché la creatura piange?”. Dostoevskij sa che la domanda perché esiste il male, perché l’uomo soffre? è “irragionevole e priva di senso”, eppure si ostina a proporla, continua a lottare nonostante l’impossibile. Saviano eccelle nel creare macchiette da fiction (tipo: “A Copacabana piacevano due cose nella vita: il culo delle brasiliane e farsi radere”), non ha la furia del romanziere (la Nota dell’autore è perfino imbarazzante, “una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto”: magari, saremmo di fronte a una specie di Pasticciaccio alla napoletana, invece c’è qualche spruzzata gergale ad uso dei lettori americani, che per queste cose vanno in latte di bufala), è arreso alla nuda fatalità della soap. Si è arreso. Certo, ha creato un nuovo ‘genere’. Il ‘pummarola western’. Felice lui, il suo agente, il suo conto in banca.
Roberto Saviano, Bacio feroce, Feltrinelli 2017, pp.386, euro 19,50
La carota. Si firmava underthevolcano. Come il grande, infinito, misterico romanzo di Malcolm Lowry. Under the Volcano, anno di nascita 1947. Sotto il vulcano. In Italia pubblica Feltrinelli. Che gran bel romanzo. Federico Francucci, ricercatore all’Università di Pavia, gran lettore, si firmava underthevolcano. Già questo me lo rendeva ultrasimpatico. Era il 2005. Numero 38. Era il numero 38 della rivista Atelier. Giugno 2005. Francucci cura un numero monografico dedicato ai Racconti italiani. In mezzo, tra Flavio Santi, Laura Pugno e Gabriele Dadati, c’è Roberto Saviano. Saviano prima di essere Saviano. Un anno prima di Gomorra e di tutta un’altra vita. Saviano che nella biografia non aveva ancora la scorta, era semplicemente uno che “scrive inchieste, reportage e racconti”. Saviano, in quel reperto archeologico, pubblica un racconto dal titolo La città di notte. La storia è sempre quella. Bassa malavita, omicidi a go-go, camorra. Gli agnelli sacrificali, allora, si chiamavano Vincenzo e Giuseppe. “Ammazzati. Ventiquattro e Venticinque anni. Morti che nessun giornale nazionale il giorno dopo ha ricordato. Nessun telegiornale, nessun radiogiornale ha accennato. Niente di niente”. Il racconto è vigorosamente patetico, accorato, e ammette la morale fin dall’incipit. “Esiste un posto dove nascere comporta avere una colpa”. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole – ogni posto porta con sé un marchio, una colpa; ogni famiglia ha la sua colpa da scontare sulla cattedra della vita ‘sociale’, non ci sono eccezioni, eccellenze, eccedenze. Eppure, Saviano, con quella scrittura rotta, a scatti, senza dialoghi, ci prova. Almeno. Almeno, c’è un elettrico senso di giustizia – “sono nati nel paese della colpa. Non potevano dirsi innocenti” – che rende ribollente il racconto, che lo agita. Per il resto, a dirla tutta, Saviano era un pessimo scrittore allora come oggi. Niente di nuovo sotto la sottana della Musa.
Roberto Saviano, La città di notte, in: “Atelier. Trimestrale di poesia critica letteratura”, Giugno 2005, Numero 38, pp.66-69