La nostalgia per quando eravamo giovani, ma giovani davvero. Troppo semplice sbrigarsela così. Ma se avete avuto l’ardire di parlare dell’oggi, che si tratti della musica, come nel mio caso, come della società o della politica, con toni critici, vi sarà capitato chissà quante volte di sentirvi apostrofare con un classico “non è che nel passato le cose andassero tanto meglio”. Così, come se si stesse commentando un pezzo luddista di un Cazzullo qualsiasi, o se si fosse di colpo introiettati dentro la testa calca e rossiccia di Gramellini. Certo, la nostalgia per quando si era giovani c’è, e la moria delle tante icone che quella gioventù hanno punteggiato non fa che acuirla, ma sbolognare la faccenda così è troppo semplice. E comodo.
Partiamo da un accadimento di cui molto si è parlato nei social, la foto che vede ritratti insieme Fabio Rovazzi, il suo autore Danti e Tommaso Paradiso dei TheGiornalisti. La foto, pubblicata su Instagram dal comico milanese è stata ripresa, commentata, è diventata oggetto di dibattito e, in molti casi, presa a spunto per indicare qualcosa di simile all’apocalisse della musica italiana. Non solo e non tanto perché Rovazzi viene legittimamente identificato come il Ground Zero di detta musica, espressione più becera del BubbleGum pop fatto a tavolino per una precisa fascia di mercato (i bambini o gli adulti che non sono stati informati del naturale incedere del tempo), quanto perché inspiegabilmente Paradiso viene considerato l’alfiere della novella musica d’autore, identificata altrettanto inspiegabilmente col nome indie (da non confondersi con le Indie). La foto lascia presagire il già chiacchierato prossimo duetto tra i due, Danti sta lì solo perché ambirebbe a essere fermato per casa da qualcuno che non voglia solo chiedergli “hai una cartina”, ma sembra aver detto molto altro agli internauti, che nella più parte dei casi ha gridato allo scandalo.
A questo punto dovrei fare una pausa tattica, e buttare li una frase che prepari il campo al passaggio successivo, quello in cui calo la mannaia come il boia del Campo della mostra. Qualcosa tipo “premesso che a me Paradiso e Rovazzi stanno simpatici, e che non ho mai guardato al pop con sospetto”, frase vera solo in parte, perché mentre Paradiso mi sta in effetti simpatico, non fosse altro perché ha messo come post di accompagnamento alla sua assai più iconica foto con Jerry Calà la semplice didascalia “Tom & Jerry”, Rovazzi, cresciuto nel palazzo esattamente di fronte a casa mia, mi sta decisamente antipatico, e a certo pop non ho guardato con sospetto ma con schifo. Dovrei, ma non voglio. E non voglio perché non intendo usare la mannaia. Non credo sia necessario farlo.
Rovazzi è Rovazzi, e in un mondo giusto uno come me che scrive di musica neanche dovrebbe sapere della sua esistenza (nel mio caso sarebbe semplicemente il ragazzo coi baffi che abitava nel palazzo di fronte). Non state a tirare in ballo PIppo Franco che canta “Mi scappa la pipì” o “Che fico” o Salvi col suo “C’è da spostare una macchina”, perché quelle erano le derive canzonettistiche di personaggi che facevano la televisione, qui il futuro regista e attore Rovazzi ha usato, bene, anche se a nostro discapito, la rete e poi un paio di brutte canzoni per diventare abbastanza famoso da ambire a un ruolo da regista, percorrendo esattamente la strada opposta. Rovazzi è Rovazzi, andate a vederlo al cinema, se avete coraggio.
Non solo Tommaso Paradiso è anche uno che ha ben capito come funzionano questi tempi e come funziona la comunicazione in questi tempi, e ha deciso di usare i social e le sue canzoni per diventare quel che oggi è, il tipo con la barba che si fa i selfie con Jerry Calà e Rovazzi, quello che scrive le colonne sonore per i cinepanettoni e Verdone e quello cui riesce, caso più unico che raro, a sopravvivere artisticamente dalla firma con la Universal Publishing come autore. Anzi, il solo, al momento, a esserne uscito artisticamente rafforzato.
Paradiso, invece, non è Paradiso. O meglio non è il Paradiso che ci siamo immaginati fino a qualche mese fa, anche grazie al suo modo di raccontarsi fin lì. L’iscrizione al registro degli artisti indie, infatti, se con indie si intende quei cantautori o gruppi che ambiscono a portare avanti, seppur modernizzandola, la canzone d’autore un tempo ad appannaggio di nomi troppo importanti per essere spesi in una frase che evochi personaggi come Dente o Colapesce, risulta in effetti assolutamente fuori fuoco, anche guardando solo al passato. Tommaso Paradiso è un bravo autore di canzoni pop. Ultimamente un bravo autore di brutte canzoni pop, ma questa è faccenda che poco c’entra con la foto in questione.
A lui, sembra evidente, della musica d’autore in quanto tale, non frega nulla. E fa bene. Non solo Tommaso Paradiso è anche uno che ha ben capito come funzionano questi tempi e come funziona la comunicazione in questi tempi, e ha deciso di usare i social e le sue canzoni per diventare quel che oggi è, il tipo con la barba che si fa i selfie con Jerry Cala’ e Rovazzi, quello che scrive le colonne sonore per i cinepanettoni e Verdone e quello cui riesce, caso più unico che raro, a sopravvivere artisticamente, mi si lasci usare una parola azzardata, dalla firma con la Universal Publishing come autore. Anzi, il solo, al momento, a esserne uscito artisticamente rafforzato.
Perché se da un punto di vista meramente economico firmare con le edizioni Universal oggi come oggi può risultare un affare, son capitati lì mica a caso tutti gli ultimi hitmaker, da Federica Abbate, capitataci in verità per caso con la vittoria del contest Genova per Noi, a Roberto Casalino, da Diego Mancino al re delle hit, Dario Faini, da Alessandro Raina a, appunto, Tommaso Paradiso e Calcutta, tutta gente che ha firmato le canzoni dei fuoriusciti dai talent di più o meno successo, ma che poi è arrivata a collaborare anche con mostri sacri come Luca Carboni o Eros Ramazzotti, tanto per fare un paio di nomi, da un punto di vista artistico arrivare in via Crespi significa per quasi tutti mettere la propria carriera in soffitta, dediti anima e corpo a scrivere canzoni per gli altri, spesso poi costretti a lasciare gli scarti per se stessi, sempre che un se stesso rimanga.
Togliete a Tommaso Paradiso questa estetica anni Ottanta dietro la quale si è sempre nascosto, lui sì nostalgico del passato, fatta di citazioni di Verdone o del cumenda Zampetti, toglietegli quei suoni da Venditti minore o Umberto Tozzi fuori tempo massimo, toglietegli anche quel continuare a tirare in ballo il Vasco del periodo Bollicine. Sotto questa patina plasticosa, ben disegnata, ci mancherebbe altro, ma patina, appunto, restano canzoni leggere, orecchiabili, pronte per le radio e le autoradio
Con questo non si vuole certo accusare Klaus Bonoldi, lui l’uomo dietro queste firme, di mettere il giogo intorno al collo di questi personaggi, ma i fatti parlano chiaro, una volta firmato quel contratto la carriera solista o di gruppo diventa una chimera. Paradiso fa eccezione. E fa eccezione anche perché, a differenza di un Mancino, uno dei cantautori più validi della sua generazione, o di un Calcutta, che qualcosa ha promesso ma non ancora mantenuto, lui è al pop, anzi, al pop di cassetta che ha sempre guardato.
Toglietegli questa estetica anni Ottanta dietro la quale si è sempre nascosto, lui sì nostalgico del passato, fatta di citazioni di Verdone o del cumenda Zampetti, toglietegli quei suoni da Venditti minore o Umberto Tozzi fuori tempo massimo, toglietegli anche quel continuare a tirare in ballo il Vasco del periodo Bollicine (dopo Anima fragile martoriata con Elisa a Verona ci si augura che almeno questa parte del suo immaginario costruito a nostro beneficio voglia rimuoverlo, viva Dio), sotto questa patina plasticosa, ben disegnata, ci mancherebbe altro, ma patina, appunto, restano canzoni leggere, orecchiabili, pronte per le radio e le autoradio.
Non dimentichiamolo, perché chi dimentica è colpevole, ma Paradiso è quello di “Partiti adesso” di Giusy Ferreri, di “Mi hai fatto fare tardi” di Nina Zilli, de, Cristo santo, “L’esercito dei selfie” di Takegi e Ketra, cantato da Fragola e Arisa. Poi è anche quello di Riccione, non esattamente La costruzione di un amore di Fossati o Up patriots to arms di Battiato. Pop di cassetta, ben fatto e decisamente brutto. Del resto, ripetiamolo che magari serve, a lui aver firmato quel contratto è servito. Perché è grazie a quel contratto che è arrivato a cantare una canzone non sua con Fabri Fibra, firmata dal suo socio in canzoni Dario Faini (uno che per capirsi poi cerca di ricostruirsi l’imene artistico facendo musica ambient sotto il nome Durdust), Pamplona, brano che ha alzato la palla per Riccione, dando vita a un incredibile paradosso discografico.
Sì, perché per una volta nella vita la Unversal, che ha come core business il catalogo discografico, si è trovata a avere di più come editore di un disco uscito per la Carosello, per loro pubblicano i Thegiornalisti di Paradiso, notoriamente appoggiata più sulle edizioni che sui dischi. Senza la spinta di Pamplona, che doveva essere il tormentone dell’estate, non ci sarebbe stata Riccione, il tormentone dell’estate. E senza Riccione non ci sarebbero stati i cinepanettoni e Rovazzi, probabilmente neanche i selfie con Jerry Cala’. Nessuno scandalo, dunque, nel vedere Rovazzi fare le pose di fianco a Paradiso, e viceversa. Tutto molto normale. Tutto molto interessante. Di musica demmerda ce n’era parecchia anche quando ero giovane io, negli anni Ottanta, spiace solo che dovendo guardare al passato, qualcuno abbia deciso di tirare fuori dal cassetto dei ricordi solo quella.
Ps.
Per la cronaca Rovazzi e Paradiso stanno facendo la canzone di Natale di Radio Deejay. Manco delle feste hanno avuto pietà