“Una famiglia” dimostra che in Italia l’arte è impossibile (e l’immondizia ideologica necessaria)

Sebastiano Riso ha subito un'aggressione omofoba. Ma il suo film fa arrabbiare anche i politicamente corretti perché se ne frega delle ideologie e di compiacere il pubblico

L’unico modo per spiegare a un’amica straniera come sia possibile che in Italia, nel 2017, un artista finisca all’ospedale a causa del contenuto della sua opera è mettersi una mano sulla coscienza e confessarle la verità. Ovvero che in Italia il 2017 non e’ mai arrivato.

Tecnicamente abitiamo un futuro in cui i telefoni si sbloccano con lo sguardo, eppure da queste parti è ancora pieno di gente che ha nostalgia di idee politiche che andavano di moda ai tempi di Marconi. E siccome non c’è come vietare un’opinione per renderla popolare, non importa quanto quella opinione sia imbecille, c’è da scommetere che con la legge Fiano la situazione potrà pure peggiorare.

Ma le reazioni che il film di Sebastiano Riso “Una famiglia” sta suscitando dimostrano come il prolema non riguardi solo una percentuale più o meno numerosa di nostalgici con il busto di Mussolini sul comodino e il calendario di Nina Moric alla parete, ma sia ben più profondo e radicato. Si, perché prima di essere picchiato dagli omofobi, la settimana precedente, a Roma, il regista aveva dovuto difendersi dall’accusa di “far tornare l’Italia indietro di 10 anni” durante un acceso dibattito al termine di una proiezione speciale per la comunità LGBT. Il tutto, pare, alla presenza della senatrice Cirinnà, che le cronache dei presenti raccontano piuttosto infervorata.

A Roma, il regista aveva dovuto difendersi dall’accusa di “far tornare l’Italia indietro di 10 anni” durante un acceso dibattito al termine di una proiezione speciale per la comunità LGBT. Il tutto, pare, alla presenza della senatrice Cirinnà, che le cronache dei presenti raccontano piuttosto infervorata

Ma come è possibile che “Una famiglia” faccia imbestialire, nello stesso tempo, i santoni del politicamente corretto e i nostalgici dell’olio di ricino?
Per capirlo basta vedere il film. Riso si è macchiato di un peccato in Italia mortale, lo stesso peccato di cui, prima di lui, si erano macchiati artisti come Pier Paolo Pasolini o Leonardo Sciascia: ha avuto la pretesa di liberare l’arte, la sua arte, dalla sottomissione a un’ideologia politica.
La premessa narrativa del film vede infatti Vincenzo (Patrick Bruel) e Maria (Micaela Ramazzotti) formare una famiglia disfunzionale che vive grazie all’utero di lei, dato in affitto in cambio di 80 mila euro alla volta.

Con una storia del genere, a Riso, in Italia, erano concesse due possibilità. Poteva decidere di compiacere la brigata degli “Uomini Buoni”, quella Sinistra che è sempre nel Giusto perché è la sola a sapere cosa sia Giusto, e mettere in scena una favoletta morale in cui, dopo lunghe peripezie, il bambino viene dato in adozione ad una coppia omossessuale, che si dimostra affettuosa come e più di una famiglia tradizionale, salvando il pupo da una vita di sofferenze; oppure poteva decidere di compiacere la fazione “Vecchia Maniera”, e chiudere la storia con un colpo di scena, tipo la Ramazzotti che grazie a un prete si pente, redime il marito, e tutti insieme si godono una vacanza a Varazze grazie a un bonus bebè.

Riso, insomma, si oppone alla logica dell’arte come come manganello in mano a questa o quell’altra fazione per picchiare in testa la fazione opposta, rivendicando la libertà di raccontare una famiglia, non LA famiglia. Una storia, con l’obiettivo di insinuare il dubbio: non LA storia con la pretesa di raccontare la verità assoluta.

Peccato che Riso non faccia nulla di tutto questo. Come avvisa la scritta all’inizio del film – “basato su alcune storie vere” – il regista mette in scena la vicenda nel modo più realistico possibile, e la vita – si sa – ha il vizio di rifuggire dalle semplificazioni ideologiche. Così, quando il bambino di Maria viene dato in adozione a una coppia omosessuale, la sensazione non è quella di avere a che fare con due eroi – come imporrebbe il manuale del Bravo Artista Italiano – ma di due utilizzatori finali dell’altrui tormento, che addirittura scavallano il confine dell’eugenetica quando rinunciano al bambino perché cardiopatico.

Ma allo stesso tempo no, non ci sono colpi di scena di quelli cari alla nostra fiction televisiva: la famiglia che da il titolo al film non torna unita nel nome del Buon Dio, anzi lui rottama lei con un’altra, più giovane e più fertile: e durante un dialogo particolarmente riuscito sull’Italia dove “non cambia mai niente” spunta, fuori fuoco sullo sfondo, la birichina sagoma della Basilica di San Pietro.

Riso, insomma, si oppone alla logica dell’arte come come manganello in mano a questa o quell’altra fazione per picchiare in testa la fazione opposta, rivendicando la libertà di raccontare una famiglia, non LA famiglia. Una storia, con l’obiettivo di insinuare il dubbio: non LA storia con la pretesa di raccontare la verità assoluta. Così facendo crea un’opera profondamente libera, e quindi profondamente anti-italiana, suscitando la reazione rabbiosa delle tante sentinelle e dei tanti sentinelli impegnati ad evitare che anche da noi si diffonda un libero pensiero.

Fin da adesso, tuttavia, conosciamo i nomi dei mandanti. In prima linea ci sono coloro che, da decenni, hanno ridotto la cultura italiana ad un interminabile Giorno della Civetta, dove ogni film, ogni libro, ogni articolo di giornale deve essere creato con l’obiettivo di compiacere il Padrino della cosca politica e/o economica a cui l’artista deve tutta la carriera.

Le indagini chiariranno gli esecutori materiali di un’aggressione che puzza di anni ’70 da fare schifo. Fin da adesso, tuttavia, conosciamo i nomi dei mandanti. In prima linea ci sono coloro che, da decenni, hanno ridotto la cultura italiana ad un interminabile Giorno della Civetta, dove ogni film, ogni libro, ogni articolo di giornale deve essere creato con l’obiettivo di compiacere il Padrino della cosca politica e/o economica a cui l’artista deve tutta la carriera.

O ha un Mammasantissima che gli copre le spalle, e che però lo tiene al guinzaglio, o per un artista italiano trovare un produttore disposto a finanziarlo o un editore a pubblicarlo è un’impresa spesso disperata. E ancora più disperato è il tentativo di trovare un artista che abbia il coraggio di ribellarsi: i Pasolini e gli Sciascia di ieri, o i Riso di oggi, sono eccezioni a fronte di una schiera di guitti felici di sbattere i tacchi, soprattutto perché senza il sostegno finanziario del politico con cui vanno a cena dopo lo spettacolo sarebbero costretti a cambiare lavoro.

Per non parlare del pubblico, talmente assuefatto al conformismo culturale da aver sviluppato un livello di dipendenza tale per cui, nel momento in cui si imbatte in un contenuto non omologato, si strappa i capelli dalla rabbia mentre scrive minacce sui social all’indirizzo del malcapitato artista I mandanti dell’aggressione a Riso, insomma, siamo tutti noi, noi Italiani che abbiamo avallato questo sistema senza ribellarci, perché in fondo ci conviene.

Conviene alla politica, che così silenzia ogni tipo di voce potenzialmente critica e pericolosa. Conviene agli artisti, il cui portafoglio si gonfia come il petto delle oche. E conviene pure al pubblico, che evita di interrogarsi con le ingarbugliate contraddizioni del presente, restando ancorato alle rassicuranti dialettiche del XX secolo tipo destra/sinistra, buoni/cattivi, rossi/neri, nord/sud, Mazzola/Rivera e via dicendo.

Tuttavia, da qualche parte, esiste anche un’Italia diversa. Un’Italia fatta di disertori “in avanti”, che si è stancata delle cosche, dei Padrini e del passato, del fatto stesso che da noi la cultura debba essere ncessariamente antitetica al concetto stesso di libertà. Forse è il momento che questa Italia silenziosa, che accetta tutto pensando di essere minoritaria, esca una buona volta allo scoperto e si vada finalmente alla conta. Un buon modo per cominciare è andare a vedere il bel film di Sebastiano Riso.

X