A X Factor (e non solo), passa la bellezza, ma non passa la Bellanza

Dalle pubblicità ai programmi televisivi, saper raccontare una storia è diventato ormai fondamentale. Ma questo molto spesso serve a celare la scarsa qualità di quello che si sta vendendo.

Tendiamo per nostra natura a credere a quel che ci viene detto, se a farlo è qualcuno che riteniamo autorevole o credibile. La pubblicità – che non reputiamo, se sufficientemente razionali, ne’ credibile ne’ autorevole, ma essendo dentro il nostro televisore ci è quantomeno familiare – fa spesso leva su questa fiducia, chiedendoci di credere all’incredibile. Il dentifricio che rende bianchi i denti, la crema che cancella le rughe, il cibo preconfezionato che sa di buono ed è sano. Tutto incredibile, se non dichiaratamente falso, ma siccome ce lo dice la pubblicità, di colpo è vero o quantomeno verosimile, quindi con ragion d’essere. Ecco, se quindi una storia ci viene raccontata come emozionante, se si fa leva su una storia triste, se si usa un linguaggio emotivo è naturale che ci si emozioni. Una sorta di empatia indotta. Lo chiamano storytelling, e oggi sta diventando una sorta di must, di quelli che fanno impazzire i comunicatori. Al punto che, a volte, non spesso ma abbastanza spesso, la faccenda sfugge di mano, diventando la storia raccontata quasi più importante del prodotto – si vedano le ultime pubblicità “sociali” della Dove.

Lo stesso, e non può che essere così, succede nei programmi televisivi, dove a scrivere le storie sono spesso gli autori, non solo incaricati di trovarle, le trame avvincenti, ma quando serve di enfatizzarle, se non addirittura correggerle a beneficio di scaletta e di copione. Se si decide che serve puntare sull’empatia, sulla compassione, si fa leva sugli aspetti tristi delle vite dei protagonisti, le si racconta evidenziando un percorso doloroso, si mostra anche la commozione di chi, in prima battuta, questa storia la viene a conoscere, prima ancora dello spettatore, e il gioco è fatto. Usando appunto una brutta parola molto di moda, si empatizza. Questo però non ha necessariamente a che fare con il talento e la capacità di emozionare dell’attore (non nel senso di attore cinematografico), quanto più nella bravura di chi ci racconta la storia o nella potenza di fuoco di chi la racconta. Funziona così, in genere: se leggendo un libro ci piace un personaggio, o lo odiamo, il merito è dell’autore, non certo del personaggio stesso.

Lo è talmente tanto che, in novantanove casi su cento, gli stessi personaggi che ci commuovono dentro certi contenitori, una volta usciti di lì, sfilati da quel contesto, diventano dozzinali. O meglio, tornano a essere quel che sono sempre stati, non artisti, appunto, ma al massimo mediocri esecutori.

Del resto, se buona parte dei giudici e dei coach pascolano nella mediocrità e non hanno certo percorsi da discografici degni di quei ruoli, perché dovremmo aspettarci altro da questo? Non è mica un caso che spesso si nascondano dietro quel nome, televisione, usandolo come scudo non tanto per coprire il cuore, ma meno romanticamente per pararsi il culo. Sono attori in balia di sceneggiatori, dubitate in chi cerca di parlarvi di verità.

Traduco.

Non parliamo, non parlate di grandi artisti perché avete avuto i lucciconi sentendo qualcuno cantare in tv dopo che vi hanno raccontato del suo tragico passato, o dopo che avete trovato il video su un colonnino di giornale online che grida al miracolo. Quella crema toglie le rughe solo negli spot.
E, per essere sul pezzo, sappiate che non c’è empatia che un bravo foniatra non possa curare, prima che sia troppo tardi.

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