Proprio noi che siamo in festeggiamenti per il periodo dei morti e tutti i santi abbiamo seri indizi che il tempo non esista. Già solo andare in vacanza, o anche solo addentare il pan de mort o un dolcetto/scherzetto in questi giorni va preso per quello che è: un’invasione della metafisica, di una dimensione eterna, nel tempo degli orologi e delle buste paga. Non male, e nemmeno troppo perturbante, pensarla così anche solo come ipotesi fantasy.
Non male, ancora, prendere sul serio Carmelo Bene quando dice: “il tempo non esiste”, e mobilita tutta una tradizione di Sacre Scritture, Dottori della Chiesa, mistici o banali vecchine oranti di fronte a una Resurrezione che è già successa, succede, e succederà ancora.
Non male, allora, pendere questo bel documentario di Giuseppe Sansonna, Tracce di Bene (presentato alla Festa del Cinema di Roma, visto giovedì su Sky Arte) e immaginarselo al contrario. Dalle scene finali a quelle iniziali. Rovesciato. Stile Benjamin Button di Fitzgerald, o La freccia del Tempo di Martin Amis. Nemmeno illegittimo, farlo, e non solo per il lato metafisico/atemporale che è linfa di tutta l’antirappresentazione beniana, ma anche perché il documentario di Sansonna non è rigidamente cronologico e completo; è strutturato su registrazioni vocali di Bene fatte da Giancarlo Dotto, suo collaboratore storico, amico caro, e autore con lui/per lui/in lui. CB racconta pezzi della sua vita, e spiega -tra l’altro in modo abbastanza piano- la sua arte, e il tutto è accompagnato da brani recitati e da spezzoni di apparizioni, interviste, dibattiti.
Quindi cominciamo dalla fine.
In una delle ultime scene c’è un dialogo di Bene e Pasolini. PPP rimprovera a CB: “Quando dici che sei un anarchico fai già dell’ideologia” e fa altre osservazioni appuntite ed esatte a un Bene in giacca di pelle e barba lunga che urla “Voglio vincere il consiglio di Stato”. Ecco, nonostante i due avessero varie cose in comune (tra cui i “magnifici pendagli da forca come Franco Citti e i Davoli”, e la pratica di “intridere di oralità la parola scritta”) vengono fuori parecchie differenze. Un Pasolini analitico, intellettuale, “politico”, novecentesco, “sentimentale”. Un Bene sintetico, mistico, impolitico, arcaico, “ingenuo” (nel senso di Schiller).
Ed è una distinzione importante. Perché buona parte della critica ha visto Carmelo Bene come un devastatore delle forme di rappresentazione, teatrali e non solo. Bene è quello della “scrittura di scena” che sopprime il testo, della “phonè” (rumore, etimologicamente; ottenuto amplificando la voce) che sopprime i significati delle parole, della segmentazione dei gesti, che sopprime la “naturalità” dello stare sul palco. Dell’oblio che sopprime il ricordo. Tutti elementi che piacevano moltissimo alla post-fenomenologia francese, sempre golosa, nella sua ansia decostruttiva, di irrazionalismi da sondare (a volte in qualche arguta maniera cafe au lait), e infatti Gilles Deleuze ha dedicato a Bene pagine e pagine.
E probabilmente ha avuto ragione, anche perché tutto l’apparato teorico che lo stesso Bene usava in interviste, spiegazioni, incontri, pubblici dibattiti (come i due interventi feroci al Costanzo Show degli anni 90) oscillava tra Nietzsche, Wittgenstein, Saussure, Heidegger, tutto l’armamentario da manuale di sperimentalismo & post fenomenologia. In breve, visto dall’Europa del 900, Bene è un personaggio tutto nell’avanguardia del post-teatro e nella de-costruzione della filosofia.
Poi però, sempre guardando questo bel documentario a ritroso, vengono sospetti che esista un altro Bene, e che sia quello il sommo Bene. Quello popolare, antieretico, teologico in senso stretto. Anche i teologi negativi, quelli che negano per affermare sono teologi in senso stretto. Il fatto che Bene notasse, ridendo, che Giuseppe Desa da Copertino (santo illetterato, idiota, sgraziato, goffo, sbavante, ma capace di levitare anche per centinaia di metri e di svegliarsi dall’estasi piagnucolando: “stu sonno”) è nato nell’anno dell’”abbruciamento” di Giordano Bruno (diventato poi, non proprio a ragione, emblema del libero pensiero).
Il fatto che tutta la teoria, e la pratica, dell’estasi beniana, tutto l’”uscir fuor da sé” sia modellata, analogicamente, sul naturalismo mistico, cattopagano, del Sud. L’abolizione della coscienza è stata variamente praticata nei balli di possessione, vedi alla voce Taranta, Tarantella, ed è stata lussuosamente teorizzata nel De sensu rerum et magia di Tommaso Campanella, secondo cui “sentire è trasmutarsi nella cosa sentita”. Il popolare spesso si è spinto oltre l’avanguardia (vedi alla voce Totò) seguendo tracce imperscrutabili e abbastanza teologico-reazionarie, ma quasi mai identificate come tali.
E andando all’indietro verso l’inizio del documentario si trova la frase: “non hai che due scelte, l’autodistruzione o il narcisismo” (e la quasi certezza che Bene abbia scelto la prima, pur trovandosi in pieno come narcisista).
E alll’inizio di tutto, cioè, per noi che lo guardiamo al contrario, alla fine, la condizione del bambino. “Essere confusi senza un’idea” la definisce Bene, raccontando la sua infanzia di sigaraie che lo prendevano sulle cosce nude, e preti ubriachi che gli dicevano vaffanculo se, da chierichetto, versava troppa acqua nel Sangue di Cristo. “Essere confusi senza un’idea” è anche una perfetta definizione dell’anticoscienza, dell’estasi secondo il sommo Bene, della sua “poetica”, del suo fine (anti)artistico. Come se il fine di tutto fosse un perfetto, autodistruttivo, ritorno all’innocenza.
Così, più che davanti a un distruttore vero viene il sospetto di trovarsi davanti a un perfetto lealista del Sacro, che odia la rappresentazione e la distrugge proprio perché non vuole intrattenere, ma arrivare, toccare, ungere, teologicamente. Non certo un attore, piuttosto uno sciamano. O il San Paolo/Ragno di Galatina, che punge le donne i mezzo alle gambe e allo stesso tempo le fa guarire.
Ma forse è solo un sospetto di invasione teologica, motivato dalla congiuntura astrale, dai morti che tornano. E dal fatto che, come ognun sa, il tempo non esiste.