Femministe, piantatela: si dice donna, non donn@

Il 25 novembre è la giornata contro la violenza alle donne. Ed è un disastro constatare che molte battaglie (in teoria) a favore della donna si risolvono in allucinazioni linguistiche e fumosità politicamente corrette. Meno parole cambiate di genere, e più diritti, grazie

«I processi si fanno in tribunale ma i provini si fanno in ufficio, con l’assistente regista nella stanza» dice Carlo Verdone, ed è la frase più sensata sentita nella tempesta del caso Weinstein e dintorni. Ricordatevela in questi giorni, e in particolare il prossimo 25 novembre – Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne – perché ci sarà un gran bisogno di frasi semplici e ragionamenti non ideologici nella temperie che già si annuncia. A questa Giornata molte donne (me compresa) parteciperebbero volentieri per un sentimento elementare: si sono scocciate di stare in Serie B, temono per le loro figlie, vorrebbero non la Luna ma un trattamento alla pari. Ad esempio che il capo non ti chieda all’improvviso di toccarti le tette. O che al colloquio di lavoro si possa ammettere di avere un figlio senza rischiare il: «Va bene vada, le faremo sapere». O che, nel caso estremo dello stupro, a nessuno venga in mente di domandarti: «Ma portava le mutande?», come è successo alle studentesse americane violentate a Firenze. Vedono, all’orizzonte, forme di sopraffazione globale angoscianti: la tratta delle prostitute-schiave, che è il terzo affare dei clan criminali dopo droga e armi. La compravendita della maternità e dei neonati.

Cose concrete delle quali si vorrebbe trovare traccia, ad esempio, nel documento delle organizzatrici del corteo del 25 a Roma (l’associazione Non Una Di Meno), una colossale piattaforma di 50 pagine che comincia già con una cosa complicata: una chiocciola al posto della desinenza a/e, per sottolineare l’abolizione delle differenze grammaticali, immagino. «Nat@ e cresciut@». Boh. C’è difficoltà persino nel capire che cosa significa esattamente “donna”: il documento specifica che sotto questo termine vanno raggruppate tre categorie umane: lesbiche, transessuali e cis-gender, cioè persone «la cui identità di genere assegnata alla nascita in base al sesso biologico coincide con la propria percezione di sé e il genere a cui si sceglie di appartenere». Quando ti servono cinque minuti di ragionamento solo per capire se rientri nella fattispecie di cui si occupa un programma politico, resti perpless@. E viene voglia di dire alle organizzatrici: ma non vi sentite un po’ marziane, sicure-sicure di poter costruire lo choc culturale di cui il Paese avrebbe bisogno con questo linguaggio da iniziate, anzi iniziat@?

Quando ti servono cinque minuti di ragionamento solo per capire se rientri nella fattispecie di cui si occupa un programma politico, resti perpless@. E viene voglia di dire alle organizzatrici: ma non vi sentite un po’ marziane, sicure-sicure di poter costruire lo choc culturale di cui il Paese avrebbe bisogno con questo linguaggio da iniziate, anzi iniziat@?

L’altra ganascia della tenaglia è la sfilata di vittime a Montecitorio organizzata dalla presidente Laura Boldrini per la Giornata del 25. Le invitate sono 1.300, la galleria delle sopraffazioni – fisiche, psicologiche, mediatiche – sarà infinita: una rappresentazione colossale e dolente della disgrazia di nascere donna in un Paese rimasto alquanto brutale. Se fosse un romanzo distopico potremmo immaginare i signori parlamentari sottoposti al Trattamento Ludovico (chi si ricorda Arancia Meccanica?), cioè costretti a tenere gli occhi sbarrati su queste signore e sul lungo elenco di abusi e cattiverie che raccontano. Magari ne nascerebbe qualche ripensamento utile, qualche sussulto terapeutico. Ma il Trattamento Ludovico non è previsto: il 25 è sabato, gli uomini – soprattutto gli Onorevoli – staranno a casa loro a parlare di politica e collegi o tutt’al più a guardarsi gli anticipi di campionato (Cagliari-Inter, credo). Dunque, l’evento seguirà la classica tradizione delle donne che si lamentano tra donne, come accade da sempre, solo che invece di farlo sull’uscio di casa, sgranando fagioli insieme alle vicine, lo faranno in un contesto più aulico, con parole più rotonde e vestiti più eleganti delle vestagliette di paese.

È un’invettiva contro il femminismo, nuovo o vecchio che sia? Al contrario. Nel tempo ho conosciuto molte femministe, e qualcuna di loro la frequento pure, ma le sento e le leggo ragionare di altro. Hanno posizioni nette sull’utero in affitto (o gestazione per altri, fate voi, non mi impicco alle parole) che considerano l’estremo approdo della sopraffazione sulle donne e della violenza sui neonati. Dicono che stanno tornando le schiave, e che la breve fase in cui la prostituzione poteva essere una libera scelta è finita da un pezzo: la realtà di oggi è la tratta, che avrebbe solo in Italia 8 milioni di “clienti”. Parlano di lavoro e pensioni, cose molto importanti per tutte. Fanno scelte senza chiocciol@, piuttosto nette e comprensibili, analizzano il dislivello tra gli uomini e le donne come una questione di potere e di “ordine ingiusto” delle cose. Perché nel nostro spazio pubblico, invece, esiste solo l’alternativa tra il cisgender e vittimismo? Qualcuno può spiegarlo?

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