Totò Riina aveva indicato il suo nome nel 2013, in carcere, ed era certo che lo stessero intercettando. Era il suo modo di farlo sapere “ufficialmente”. L’Espresso gli ha dato una copertina, “Forbes” che adora le classifiche, nel 2010 l’ha incluso nella short list dei dieci latitanti più ricercati del mondo. Tutta roba che fa curriculum e alimenta il suo mito. L’Assenza. La Ribellione. La musica dei kalashnicov. Odore di zolfo. Un che di demoniaco. Tutta roba che non fosse drammaticamente vera potrebbe stare in un gangsta-rap.
Ora che è Riina è morto portandosi dietro parecchie domande senza risposta, Matteo Messina Denaro è il suo logico successore. L’ex ragazzo rampante, figlio del capo-mandamento di Castelvetrano, latitante dal 1993, sfuggito al SISDE, alla DIA, a chiunque, ha ereditato (o fatto sparire, dicono) il suo archivio segreto. Lo chiamavano “u siccu” (il magro) era un tipo freddissimo, di poche parole. Nato come killer puntava a far carriera e Riina ha condiviso con lui non poche decisioni. Non sappiamo quasi niente della sua vita privata. Ha scritto ingenue lettere d’amore e Maria Mesi (e questo nel 2000 le è costato una bella accusa di favoreggiamento), ha avuto da Francesca Alagna una figlia forse non ha mai conosciuto, gli piace il calcio e ha problemi agli occhi (sempre stato miope) curioso contrappasso per uno che, al contrario, ha la vista lunga.
Messina Denaro è l’espressione della nuova mafia che i pizzini non li disdegna, ma è più trapanese che palermitana, più tecnologica che rurale, più strategica che vendicativa
Sicuramente simili, uomini invisibili eppure onnipresenti, Riina, il rappresentante della vecchia mafia dei pizzini e Messina Denaro, l’espressione della nuova, che i pizzini non li disdegna, ma è più trapanese che palermitana, più tecnologica che rurale, più strategica che vendicativa, sono in realtà piuttosto diversi. E chissà che questo non crei qualche problema all’incoronazione, anche se nel tempo l’opposizione interna è stata sterminata. Quello di cui nessuno parla, perché è un tema fastidioso, impalpabile, è il consenso che lo circonda e che per istinto la società civile rifiuta di riconoscere. Non solo a Castelvetrano dove le scritte “Matteo è grande” e “W Matteo Messina Denaro” sono frequenti – è considerato da tanti un padre, un protettore, un Robin Hood– ma molto lontano, nelle frange marginali, tra i ragazzi senza prospettive che hanno trovato il loro super eroe, la loro rockstar maledetta che se ne frega delle regole e mette in pratica la vita spericolata, il loro Diabolik (è un altro dei suoi soprannomi). Solo che qui non c’è alcun ispettore Ginkgo.
La magistratura l’ha inseguito, gli ha arrestato il fratello, la sorella, i cugini e il nipote, ha spazzato via vari prestanome e sequestrato beni per un paio di miliardi di di euro, ma guardate la mappa dell’impero: supermercati, parchi eolici, boutique, gioiellerie, luoghi nei quali viviamo, dove facciamo la spesa, pensando che quell’altro mondo di oscurità sia lontanissimo. Invece è qui. Ho conosciuto studenti disposti a morire per combatterlo e studenti che lo consideravano una leggenda vivente, come i cattivi della fiction che alla fine piacciono più dei buoni (vedi “Gomorra” dove non c’è neanche la lotta tra i Bene e il Male, ma tra diverse forme di Male) e confessavano un’ammirazione contorta per il vincente, il capo. In Calabria, nel cuore nella ‘ndrangheta, altra parrocchia, c’è chi vede in lui un modello di ribellione, una forza antistato che bilancia le ingiustizie dello Stato (mi è stato spiegato con molta serietà alla fine di una lezione all’Università di Messina).
Messina Denaro è una macchina perfetta. Come Alien. Come il killer psicopatico di Cormack McCarthy in “Non è un paese per vecchi
A differenza dei tormentati Cattivi delle serie televisive (Marco D’Amore ha collaborato alla sceneggiatura della serie per far sentire a Ciro, “l’Immortale” il peso dei delitti commessi e ci teneva molto che fosse così) a Messina Denaro nessuno ha scritto un copione. Lui è quello che fa. E’ una macchina perfetta. Come Alien. Come il killer psicopatico di Cormack McCarthy in “Non è un paese per vecchi”. Come nel sanguinoso West contemporaneo di “Meridiano di Sangue”. Che non è tanto lontano da casa nostra. C’è un pezzo di West in Calabria, dove i testimoni scomodi finiscono sepolti nelle cappelle di famiglia abbandonate, e c’è in Sicilia, dove una pace superficiale e ingannevole protegge il regno di Messina Denaro, gli permette di andare allo stadio e incontrare i collaboratori. Di avere case, viaggiare, controllare la contabilità, stroncare il dissenso.
Era ancora libero quando ha partecipato al sequestro di un bambino, il piccolo Giuseppe Di Matteo, per ordine di Giovanni Brusca. L’obiettivo era convincere il padre Santino, collaboratore di giustizia, a ritrattare le dichiarazioni sulla strage di Capaci. Tenuto prigioniero per 779 giorni, Giuseppe è stato strangolato poco prima del quindicesimo compleanno e sciolto nell’acido. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci hanno fatto un film, “Sicilian Ghost Story” presentato a Cannes. Molto applaudito. Adesso il fantasma è lui, Messina Denaro, l’uomo Invisibile, Diabolik. E sarebbe utile, invece, scoprire che la rockstar maledetta è un signore di cinquantacinque anni con occhiali spessi e nessun odore di zolfo. Prederebbe molti follower.