La ricerca italiana è un disastro, e gli scienziati scendono in piazza

Al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è stata recapitata una lettera dei ricercatori del Cnr, dove i precari sono più di 4mila. L’Italia investe in ricerca l’1,33% del Pil, e solo il 40% arriva da soldi pubblici. I sindacati: “Quest’emergenza non è più rinviabile”

Dai laboratori alla piazza. Il 7 novembre i ricercatori si sono dati appuntamento per una manifestazione nazionale a Roma per chiedere al governo di approfittare della legge di stabilità, rilanciare il comparto e stabilizzare i migliaia di precari che da anni lavorano con contratti a termine. Ma all’orizzonte non si vedono buone notizie. Secondo i sincadati Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Rua, nel testo della manovra ci sarebbero «risorse per coprire solo 300 posti» negli enti di ricerca. Briciole, insomma, per chi aspetta anche da più di dieci anni. «Sono almeno 15 anni che il nostro Paese non investe adeguatamente in ricerca pubblica», dicono dalle sigle sindacali. «Ci si ostina a non credere negli investimenti in ricerca come volano della crescita per il Paese».

A ottobre erano già scesi in piazza i ricercatori del Cnr, il maggiore ente pubblico di ricerca, dove il 40% dei dipendenti è precario. Circa 4mila unità, solo per il Consiglio nazionale delle ricerche. E proprio in occasione della manifestazione nazionale del 7 novembre, il gruppo “Precari Uniti Cnr” ha scritto una lettera al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. «A dicembre, dopo anni di studi e sacrifici, centinaia di precari del Cnr saranno licenziati poiché mancano i soldi, ed in alcuni casi normative, per rinnovare i loro contratti», sscrivono. «Si pensi alle migliaia di pubblicazioni di valore internazionale e alla ben nota capacità di attrarre ingenti risorse economiche da progetti di ricerca internazionali, commesse e lavoro conto terzi. Il Cnr raddoppia la propria dotazione ordinaria (poco più di 500 milioni) chiudendo il bilancio annuale oltre il miliardo di euro. Nessun altro ente della pubblica amministrazione è così in attivo, nessun altro è così immediatamente un investimento per il Paese». Eppure i risultati non bastano: «Nei fatti permane il reiterato abuso di contratti “flessibili“».

Ne sanno qualcosa gli oltre 170 ricercatori precari (su 400) di Inapp, ex Isfol – l’unico ente pubblico di monitoraggio e ricerca sul mercato del lavoro – che nell’istituto lavorano da più di 15 anni con contratti a termine. Stefano Sacchi, presidente Inapp, a inizio novembre ha denunciato che la legge di stabilità del 2018 prevede la stabilizzazione di 51 ricercatori dell’Anpal, la neonata agenzia per le politiche attive, e non di quelli dell’Inapp. Salvo poi ricevere rassicurazioni dai presidenti delle Commissioni Lavoro sull’arrivo di un emendamento per stabilizzarli. Ma è ancora tutto da scrivere.

Senza contare le file dei ricercatori precari delle università italiane, che sono più di 66mila, secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, tra borsisti, assegnisti, ricercatori a contratto e consulenti. Molto più di tutti i docenti a tempo indeterminato sparsi negli atenei italiani. Ricercatori sempre a rischio di mancati rinnovi contrattuali. Che nella ricerca significa anche dover lasciare un progetto a metà.

Senza il contributo di questi lavoratori il sistema della ricerca non può pensare di competere con i livelli di eccellenza nel panorama internazionale. Quest’emergenza non è più rinviabile

La riforma della pubblica amministrazione che porta il nome della ministra Marianna Madia prevede anche l’assunzione dei precari della ricerca. Ma questo significherebbe spendere almeno – questa è la stima – 300 milioni di euro. E le stabilizzazioni latitano. L’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), ad esempio, a ottobre ha comunicato alle sigle che non procederà a stabilizzare i ricercatori e i tecnologi precari, che nell’80% dei casi hanno alle spalle oltre otto anni di contratti. Oltre a riconoscimenti vari dalla comunità scientifica internazionale, a partire dalle ricerche sul famoso bosone di Higgs.

«Il precariato ha assunto dimensioni drammatiche a causa sia di un indiscriminato blocco delle assunzioni sia di indistinti tagli lineari ai finanziamenti», dicono i sindacati che hanno organizzato la manifestazione. «Senza il contributo di questi lavoratori il sistema della ricerca non può pensare di competere con i livelli di eccellenza nel panorama internazionale. Quest’emergenza non è più rinviabile».

L’Italia ha la spesa in ricerca tra le più basse d’Europa. L’investimento per ricerca e sviluppo (dati 2015) è pari all’1,33% del Pil. E di questo 1,33%, circa il 40% viene dal governo. Il resto arriva dal privato: imprese, investimenti esteri ed enti non profit. Siamo sotto la media Ue, che è del 2,03% del Pil. Al primo posto per spesa in ricerca troviamo Svezia, Austria e Danimarca. Peggio dell’Italia fanno Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Slovacchia, Lituania, Polonia, Grecia, Bulgaria, Croazia, Malta, Lettonia, Romania e Cipro.

«L’Italia ha non solo la spesa in ricerca tra le più basse d’Europa, ma costituisce praticamente uno dei pochi casi in Europa di contrazione in valore assoluto nell’ultimo decennio», spiegano i sindacati. «Gli altri casi sono la Grecia e il Portogallo. In tutti gli altri Paesi dell’area euro a 12, nonostante le difficoltà dei bilanci pubblici, la crescita della spesa in ricerca non si è mai interrotta».

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