Ciclicamente torna, regolare ad ogni elezione il “civismo” come magico unguento a tutti i mali di sinistra (ma non solo) con tutto il suo corollario di “decisioni dal basso”, “senza padrini”, “civici non politici”, “assemblee aperte” e una naturale idiosincrasia per tutto ciò che è partitico. È un’antipolitica più fine, linguisticamente elaborata ma più o meno con gli stessi stilemi del nuovismo di matrice renziana o del feticcio della verginità del primo Movimento 5 Stelle: per essere credibile e “civico” insomma l’importante è avere il pedigree di provenienza pulito poi, evidentemente, per qualcuno tutto il resto dovrebbe venire da sé.
Capiamoci, qui siamo di fronte a qualcosa di diverso della normale (e dovuta) osservazione della storia di ognuno (del resto ognuno di noi conosce “civici” che non voterebbe nemmeno come amministratori del condominio) quanto piuttosto un’inconcludente e dannosa perdita di tempo in un dibattito tutto incentrato sulla provenienza e sulla presunta rappresentanza piuttosto che sulla reale capacità di intercettare voti in base al programma con cui ci si vuole candidare.
Mesi passati a discutere, per fare un esempio, dell’affidabilità di Pisapia quando sarebbe bastato chiedergli (e fargli rispondere ad alta voce) se fosse disponibile abolire il Jobs Act, smetterla con la politica dei bonus e rimettere mano alla Buona Scuola; ora invece sono i giorni in cui a sinistra i civici lamentano una scarsa considerazione dai partiti con una discussione (legittima, per carità) sulle regole assembleari; poi verranno i risultati delle telefonate di Fassino (impegnato in una cortese campagna acquisti non si capisce in base a quali accordi programmatici; e infine sarà il tempo della discussione sul leader.
Mesi passati a discutere, per fare un esempio, dell’affidabilità di Pisapia quando sarebbe bastato chiedergli (e fargli rispondere ad alta voce) se fosse disponibile abolire il Jobs Act
Da fuori, intanto, un pezzo di Paese si chiede cosa farebbe la sinistra (unita o meno) di diverso rispetto alla ricetta renziana degli ultimi anni, ci si interroga sulle ricette che riguardano Europa, lavoro, fisco, salute, ambiente e sviluppo.
La lezione che la sinistra sembra non imparare mai, del resto, è che gli elettori non hanno il palato così fine (e non hanno nemmeno troppo tempo da perdere) sul dna politico di questo o quell’altro candidato ma sarebbero molto più interessati ad appoggiare un programma politico in cui si riconoscono e in cui riconoscono la praticabile soluzione delle angustie quotidiane. Davvero qualcuno può pensare che la provenienza dal PD di un candidato che propone un’intelligente soluzione per ripristinare diritti in un mondo del lavoro dove la precarizzazione ha trasformato i lavoratori in semplice costo aziendale sia un insormontabile ostacolo per l’elettore? Dai, su, non scherziamo?
Oppure davvero siamo convinti che non sapere nulla del passato politico di un candidato (e quindi delle sue idee, delle sue modalità e della sua storia emotiva) risulti rassicurante per un elettore che non rientri nella schiera degli sfascisti ferocemente indignati? No, dai. E ancora: ma può la sinistra (storicamente attaccata a una visione pedagogica della politica e dello Stato) considerare una macchia l’avere frequentato sezioni di partito o meglio l’avere praticato politica in componenti politiche che oggi nonostante la stessa sigla appaiono distanti anni luce rispetto a ciò che erano? Dai, su.
La lezione che la sinistra sembra non imparare mai è che gli elettori non hanno il palato così fine (e non hanno nemmeno troppo tempo da perdere) sul dna politico di questo o quell’altro candidato ma sarebbero molto più interessati ad appoggiare un programma politico in cui si riconoscono e in cui riconoscono
La gara alla “purezza” in questi tempi in cui un certo renzismo e il berlusconismo vanno a braccetto, mentre la destra segna quotidianamente vittorie culturali oltre che politiche e mentre l’Europa sbanda nella curva dei diritti umani è un alambicco suicida per una sinistra destinata a essere residuale nel dibattito oltre che nelle percentuali: l’elettorato medio (che qualcuno sprezzantemente pronuncia con una punta di disgusto) è quello che sancisce la possibilità o meno di governare e l’elettorato medio è lo stesso che vota Salvini nella speranza di disperare i disperati per riuscire ad evitare un po’ di disperazione, è quello che vota Renzi perché ammantato dal giogo di un giovanilissimo ottimismo, è quello che voterà Berlusconi (o chi per lui) nella speranza di schivare tasse e ricevere bonus (sì lo so, in questo non è dissimile da quell’altro) oppure decide di votare a sinistra per provare ad avere un governo che non ritenga i diritti negoziabili. E anche se l’impresa sembra troppo “bassa” o poco stimolante per qualcuno gli italiani difficilmente voteranno alle prossime elezioni sulla base di una discussione (magistralmente ripresa da certa stampa che sulle divisioni della sinistra ci ha aperto un genere) che s’incaglia sulle regole o sull’ostinazione a rimarcare le differenze. Sembrerebbe facile. E invece niente.