Non facciamoci illusioni, un mondo governato dalle donne non sarebbe un mondo migliore

Molti ritengono che il mondo sarebbe un posto migliore se il potere fosse gestito da più donne. Ma bisogna capire che è necessario cambiare il gioco, non le pedine

Il potere logora chi non ce l’ha e chi ce l’ha, a patto che sia maschio. Se è femmina, è tutta un’altra storia.

Tra le molte cose che ci si sono sbriciolate sotto i piedi, nelle ultime settimane, c’è anche l’idea che il potere non abbia sesso e inquini, corrompa, alteri l’essere umano, uomo o donna che sia. L’ottimismo della neo-ragione ha stabilito, invece, che il potere è malvagio se maschile, mentre ne esiste uno, quello femminile, che, se solo governasse il mondo, l’aggiusterebbe.

Senza pensarci troppo, siamo passati da “più donne al potere” e “più potere alle donne”, a “più potere femminile”, convincendoci dell’efficacia della ricetta, a supporto della quale non c’è molto di più di un’idea pregiudiziale (ovvero: la natura maschile tende al male, quella femminile tende al bene), dedotta da una visione piuttosto ingenua della storia (ovvero: se è andato sempre tutto storto, è colpa degli uomini, erano loro che tenevano le redini).

L’ottimismo della neo-ragione ha stabilito, invece, che il potere è malvagio se maschile, mentre ne esiste uno, quello femminile, che, se solo governasse il mondo, l’aggiusterebbe.

Secondo Katrìn Jackobsdòttir, leader dei Verdi e premier designata per la formazione del nuovo governo islandese, il suo paese ha bisogno di «più leadership femminile, per una politica di giustizia sociale, gender equality, onestà». La sua è una proposta alimentata da una valutazione oggettiva, poiché 29 premier su 30, finora, hanno governato l’Islanda, e da una valutazione ipotetica, poiché suppone che la capacità di un governo di garantire giustizia sociale sia direttamente proporzionale al numero di donne che lavorano al suo interno e, di più, che la giustizia sociale sia una vocazione propria delle donne al comando. Intervistata su La Repubblica, quando le viene domandato perché lei piaccia a così tante persone, risponde: «credo sentano il bisogno di leadership femminile. Molti vogliono female leadership come richiamo ai valori familiari e sociali, più eguaglianza, prontezza ai compromessi». Se dovessimo trasformare questa dichiarazione in una vignetta, la female leadership avrebbe le fattezze di un angelo della casa, ma il pittoresco (grottesco?) richiamo alle virtù domestiche femminili dev’essere sfuggito alla leader progressista convinta che il suo governo risolverà il problema delle molestie sessuali affidando la politica in mano alle donne.

Tuttavia, è solo una nota di colore. Il punto è capire se le cape farebbero davvero meglio dei capi. Se il potere faccia marcire e ubriacare solo gli uomini e se le donne siano, invece, astemie. Se il potere abbia un sesso e se quello femminile sia il solo capace di sanare, proteggere, prosperare senza usurpare. Se così fosse, la formula certa dello sviluppo virtuoso dell’umanità sarebbe assai semplice: niente maschi ai posti di comando.

Margaret Thatcher diceva che, a parità di condizioni, una donna si mostra sempre superiore a un uomo. È a lei, la Lady di Ferro, che si ricorre, di solito, quando si vuole dimostrare che, assiso sul trono, l’essere umano diviene spietato senza che nulla, compreso il genere sessuale, possa interferire. «Dialogo, saggezza e spirito di sacrificio sono prerogative femminili», ha scritto Paola Diana, nel suo La salvezza del mondo – le donne fattore di cambiamento, un saggio che, due anni fa, fu pubblicizzato da brevi video di uomini che affermavano la superiorità delle donne.

Il punto è capire se le cape farebbero davvero meglio dei capi. Se il potere faccia marcire e ubriacare solo gli uomini e se le donne siano, invece, astemie. Se il potere abbia un sesso e se quello femminile sia il solo capace di sanare, proteggere, prosperare senza usurpare.

Non molti mesi dopo, Aldo Cazzullo pubblicò un libro che cominciava così: «Voi donne siete migliori di noi uomini» e prevedeva, con grande entusiasmo, la presa di potere da parte delle donne, che avrebbe apportato un cambiamento radicale, necessario, non più rimandabile. Il femminismo maschile è sempre, tragicomicamente, lastricato di buone intenzioni, ma sorvola sempre su un punto che, invece, per le teoriche femministe è centrale: al contratto sociale dalla cui stipula è nata la nostra società dei diritti e delle libertà, le donne arrivarono dentro una soggezione pregressa, quella derivante dal contratto matrimoniale. L’impalcatura dei diritti umani e politici, secondo questa lettura, è patriarcale poiché è stata architettata e firmata da uomini: le donne hanno potuto solo camminarci dentro.

Ne derivano due punti interessanti per il nostro ragionamento: la spietatezza di Margaret Thatcher sarebbe stata la conseguenza di un adattamento e di un’adesione a un modello maschile; diversamente da quello che ritengono Aldo Cazzullo e tutti gli ottimisti della neo-ragione, non serve sostituire il timoniere con una timoniera se non si cambia anche il timone. Che il femminile debba non semplicemente sostituire il maschile, ma correggerlo (sradicandolo, se necessario), è l’idea che sostanzia la proposta di Michela Murgia, scrittrice, secondo la quale dovremmo cominciare a pensarci come Matria, anziché come Patria. Poiché in nome di quest’ultima e da essa aizzati, i popoli hanno commesso soprusi, atrocità e falsi logici che le giustificassero, è ora di reindirizzare la nostra appartenenza esclusivamente al materno, che «è lo spazio dove a legittimare l’esistenza e l’identità è quello che ti offrono, matrice e conseguenza di ciò che offrirai poi tu». Osserva Murgia che il concetto di patria esclude le donne: il fatto che si dica ‘Madre Patria’ lo giudica nient’altro che ‘un ossimoro’ e non vi scorge, invece, l’incontro, l’idea che si provenga dall’unione di uomini e donne. D’altronde, che la patria abbia tenuto bordone al patriarcato è un fatto. L’emendamento Murgia, però, non propone di ritentare l’incontro di maschile e femminile: propone la medesima discriminazione perpetrata dalla patria, ma ribaltata in favore delle donne. Perché le donne sono migliori, perché «è colpa degli uomini» (Laura Boldrini), perché il padre ti arma contro l’altro mentre la madre ti invoglia a scoprirlo, perché le donne erediteranno la terra, perché uno scandalo sessuale ci ha convinti che a fare del potere un’orgia siano stati i maschi e solo loro.

Perché, quando Margaret Thatcher lasciò morire gli attivisti nordirlandesi in sciopero della fame che, dal carcere di Maze, le chiedevano di riconoscere loro lo statuto di prigionieri politici, stava solo attenendosi alle regole inventate dai maschi, esattamente come Angela Merkel è robotica e maschile quando pretende che i conti righino dritti, ma è materna e teologale quando accoglie i migranti dicendo «ce la possiamo fare». Incrudelita dal potere maschio è anche la moglie del dittatore dello Zimbawe, Grace Mugabe, la quale all’approssimarsi dell’età del tramonto di suo marito, lo ha spinto a far terra bruciata di tutti i possibili successori (si mormora di alcuni suoi tentativi di avvelenamento tramite mozzarella).

Potere e patriarcato hanno preso a combaciare e noi c’illudiamo che eliminare il secondo servirà a disintossicare e raffinare il primo.

«Forse è così, l’indole personale ha un peso decisivo, ma la discussione sulla struttura maschile delle regole di comando resta aperta, almeno finché il riequilibrio dei numeri non consentirà una prova statisticamente più significativa di un carattere femminile del potere»: così, Marco Ferrante concludeva il suo lungo articolo per Il Riformista sulle donne della CGIL, poche settimane prima che Susanna Camusso diventasse segretaria generale del sindacato, nel novembre del 2010. Sette anni dopo, pur non ancora in possesso di “prove statisticamente più significative” che ci aiutino a dimostrarlo, sembriamo pronti a scommettere che, demascolinizzato e consegnato in mani femminili, il potere sarà taumaturgia.

Ma pensiamo allo scompiglio di Lady Macbeth, intramontabile esempio di come potere e ambizione ossidino la virtù umana in modo unisex. Shakespeare, nel primo atto del Macbeth, le fa dire: «Voi, spiriti che vegliate sui pensieri di morte, snaturate in me il sesso, e colmatemi tutta, da capo a piedi, della più atroce crudeltà». La pulsione del potere tarla la volontà di Lady Macbeth. Oggi, a quella pulsione diamo il nome di qualcosa di più circoscritto e culturale: il patriarcato. Potere e patriarcato hanno preso a combaciare e noi c’illudiamo che eliminare il secondo servirà a disintossicare e raffinare il primo.

«Il femminismo sta facendo lo stesso lavoro del patriarcato, ma meglio», ha scritto Jessa Crispin nel suo Why I am not a feminist.

L’anno prossimo, Netflix produrrà una serie tratta da Ragazze elettriche, il romanzo di Naomi Alderman che racconta che inferno diventa il mondo, quando tutte le donne diventano capaci di fulminare (letteralmente) i maschi, che considerano colpevoli a prescindere, bavosi, maniaci, criminali. Ogni cosa si ribalta, a non essere al sicuro per le strade, di notte, non sono più le donne ma gli uomini; la deprecazione sommaria di genere colpisce i maschi; la giustizia si trasforma in vendetta; il riscatto diventa sopraffazione e il sospetto condanna. Il libro si apre e si chiude con la medesima immagine: «La forma del potere è sempre la stessa: quella di un albero. Dalle radici fino alla cima, un tronco centrale che si ramifica e ramifica all’infinito, aprendosi in dita sempre più sottili, protese in avanti. La forma del potere è il disegno di una cosa viva che tende verso l’esterno, e manda i suoi sottili filamenti un po’ oltre».

L’albero è maschile e femminile, insieme, dentro.

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