Viene tanta nostalgia per quando c’erano gli intellettuali. Innanzitutto quelli novecenteschi, tormentati, stile La terrazza di Scola, con la fobia da pagina bianca, con la catena di rimandi che finiva in pornografica attesa di qualche salvezza vuota, bianca. E perfino per i baroni universitari, che amministravano i concorsi come lividi sampietri dell’Istituzione, ma ci si poteva accontentare perfino degli intellettuali organici che dettavano una qualche linea pre-post-para-crocian-gramsciana e perfino, poi, strutturalista o postmoderna, su riviste “di spessore” (tante pagine) e senza fotine.
Perché adesso, sarà che si sono squagliate le classi e non c’è più un bel niente a cui essere organici, sarà che i soldi sono pochi, i poteri accademici ed editoriali si sono seccati, sarà che il pop ha realizzato il miracolo di portare il “basso” al livello dell’”alto” per il fatto stesso che è basso (quindi, di fatto, ha annullato l’alto), viene nostalgia dell’intellettuale. Un Recalcati, un Saviano, un Baricco, un Fusaro sono sempre superabili, in termini di spendibilità editoriale, da un Jovanotti o perfino da un Bianconi/Baustelle, ma anche da Sofia Guiscardi, via (e l’utopia sarebbe vedere una davvero di spirito come Valentina Nappi in prima pagina). E un Rovelli, occupandosi di qualcosa di duramente scientifico, non è un intellettuale, ma un sacerdote. Altra categoria.
E quindi, e dunque viene nostalgia di quando c’erano gli intellettuali. Quelli irregimentati, pure. Gli Ideologi. I guardiani. I tenutari. I camera caritatis & camarilla iniquitatis, gli escludenti da salotto. I “te levamo la licenza” (quello non era un intellettuale, ma allo stato attuale delle cose anche sì) espliciti, e quelli da bolgia degli ipocriti, impliciti. Insomma i “o sei dentro o sei fuori”. Preferibilmente, fuori.
Un Recalcati, un Saviano, un Baricco, un Fusaro sono sempre superabili, come autori di libri e editorialisti, da un Jovanotti o perfino da un Bianconi/Baustelle, ma anche da Sofia Guiscardi, via, aspettando che i tempi siano maturi per Valentina Nappi in prima pagina
Una magnifica parata di tipi intellettuali si trova nel librino: La danza dei cadaveri. La fiera dei venduti di Emilio Villa. Scritto nel 1978, a penna su un taccuino, senza nemmeno un punto (il flusso di rabbia del j’accuse è tutto in minuscole), destinato a una circolazione tra pochi amici, e appena pubblicato da De Piante (30 Euro, pp. 21), editore bello e suicidale che sforna pochi libri, di poche pagine, di contenuti seri.
Villa è stato il vero crazy diamond del Dopoguerra. Un avanguardista di poesia e arte, studioso di filologia semitica e paleogreca, capace di scrivere poesie/calligrammi furiosi/fragorosi, agitatore culturale davvero “resistente”, tanto che i suoi lavori venivano intenzionalmente dispersi tra edizioni rare, piccole case editrici, librerie, riviste che aprivano per pochi numeri.
Un caso esemplare di genio sdato, che per volontà (e non capacità), poteva solo disperdere la sua forza creativa. Facile capire cosa potesse pensare dei dispositivi del potere culturale.
Villa scrive questo testo nel momento in cui la sua solitudine orgogliosa comincia a trasformarsi in sindrome di accerchiamento, ma si sa, spesso sono le frustrazioni che permettono di vedere (e denunciare) chiaramente le cose. Ed eccoli lì gli intellettuali: “affetti di nobelismo di laticlavismo di dirigismo sclerotizzati del sofisma e del pragma dall’ideocrisi e dal fantapsichico”. Ed ecco le loro attività: “mercanti premiaioli intrallazzatori di ministeri, di cattedre, di sedie, di editoria, di assessorati, di uffici tecnologici mobilifici bancari scolastici pubblicitari, di forme neopuristiche, iristiche, pirellistiche, olivettistiche, fiatistiche e altre e altro”.mercanti premiaioli intrallazzatori di ministeri, di cattedre, di sedie, di editoria, di assessorati, di uffici tecnologici mobilifici bancari scolastici pubblicitari, di forme neopuristiche, iristiche, pirellistiche, olivettistiche, fiatistiche e altre e altro
E alla fine si può prendere quello di Villa per uno sfogo motivato da ragioni personali che è piacevolissimo leggere ad alta voce per via del flow. Ma in filigrana c’è altro.
C’è l’elegia sull’industria culturale, il fescennino contro le forme tecnico/capitalistiche che distruggono il libero ozio creativo; se si vuole la tragedia poundiana (e, solo molto dopo, pasoliniana) dell’”usura” applicata all’arte e alla cultura. Un ultimo “rant” di poche pagine quando ancora la situazione si poteva identificare e raccontare, o stigmatizzare.
Viene tanta nostalgia, insomma, per quando c’erano gli intellettuali (la classe intellettuale), e si potevano perfino prendere a male parole. Aridateci le terrazze, le camarille, i funzionari sampietri, aridatece i puzzoni. Perché, al momento, chi c’è rimasto nella notte dove tutti i pop sono bigi? Mica uno se la può prendere con Jova. Ché poi piange.