Nel centro di Palermo c’è una copia largamente autorizzata del “Trionfo della Morte”, in grado di espandersi più di quell’affresco conservato a Palazzo Abatellis. O forse è una specie di suo tableau vivant, o di ologramma by night volgare e permamente, chiamato “Movida”, ma che a differenza dell’originale si complica e si arricchisce, una sera dopo l’altra sempre con nuove opportunità brutali, scene, personaggi, sconcerti, bruttezze, abusi, coreografie.
Soprattutto, mai nessuna parola dalla politica, che sappia convincere sul come e quando giungerà un cambiamento di ‘orizzonte’ che porti a livelli anche solo più tollerabili i baratri sociali e gli scatafasci economici attuali. Chi lo sa, poi, intanto che si vota quante e quali fra le dichiarazioni di rito e di riguardo dei vari misirizzi elettorali (Micari, Cancelleri, Fava, Musumeci, La Rosa) conterranno anche un solo frammento di verità, specialmente se intanto quel che resta in mente ascoltandoli è il peggior bla bla bla di quel letale dejà entendu, che ha ridotto il Meridione a horrors e miserie?
L’affresco di Panormus, intanto che ci si prepara alla cabina elettorale, si compone come una gigantesca e marcia pagina miniata dove irrompe un cavallone spettrale e scheletrito di prorompente vitalità, la Morte, a forma di bancone da bar. Da quel che si vede, l’abominevole caos organizzato che vige settimanalmente sembra anche opera-culmine più rappresentativa della stagione “internazionale” in Sicilia come non se ne vedevano dai regni di Ferdinando I e Alfonso d’Aragona. E poi, sempre più turisti in giro amanti del gran tour cheap e criminal-pittoresco, pullmann ricolmi di teutonici curiosi verso un piccolo mondo in sfacelo, tra mille e più novelli Goethe in avanscoperta della Conca d’oro muniti di calepini, per resoconti epici su mare, arabo-normannerie, sole, templi, pesce fresco e vicoli ammorbati da sporcizie e nequizie di borgata, bocche spalancate e occhi ebeti, lungo quadrilateri di edifici bombardati con frane interne, resi comodissimi alloggi per sacchi di pattume, deiezioni, materassi, cartaccia.
L’inno della palermitanità somiglierà più allo chic poetico “Vano delle scene il diletto, ove non miri a preparar l’avvenire?” oppure, al più pop sgallettato “F**k tomorrow, ragazzi! Diamoci sotto qui, con lo svacco, che tanto siamo alla frutta, e di avvenire non possiamo offrirne?”
Purtroppo c’è sempre stato a Palermo il piccolo inconveniente storico della ‘depressione mediterranea’, che spinge a collassare sulle proprie sventure o a esagitarsi per infime modifiche esteriori, che mai riescono a diventare ‘sostanziali’ e sistemiche, eccetto quando congeniali all’indigena criminosità mafiosa. Oppure a una cosa non meno invalidante, ossia rallegrarsi, per stolida superbia e mancanza acuta e cronica di equilibrio autocritico, dei difetti più imbarazzanti rifilati agli allocchi come sano folklore locale.
Restano sul fondo, come un incubo, gli ossessivi “vendesi” su ogni piano fra le putrelle sporgenti, e la disoccupazione di 107 mila abitanti che divora ogni cosa intorno, mentre pochi se ne avvedono, inoccupazione che forse è il movente più solido delle recenti proliferazioni del ‘food’ e del ‘beverage’ (bere e mangiare e strafarsi di karaoke, per dimenticare che la città non ha un presente, figurarsi un futuro? “Chiamali fessi!”). Scenario dis-umano, naturalmente sempre contornato da chioschetti di fortuna, bancarelline e ripiani improvvisati, per esempio, nella oscura via Maqueda, che amplificano sgangherato Barocco religioso e Kitsch barocco spagnolo, e che sommano nativo Kitsch meticcio alla chincaglieria e al punk, soprattutto deliquenziale o neomelodico.
La malavita sempre più energica ci specula a iosa, aprendo bugigattoli e stamberghe a servizio del suicidio di massa a ogni metro di marcipiede, e anche un claustrofobico box auto si arrangia alla buona per traformarlo in una drinkeria. Tutta la notte a girare come trottole in una danza macabra prima di una morte collettiva, quindi nessun divertimento se non come diversivo da quella condizione orrorifica che è la mancanza di avvenire. Cosa sopravviverà del centro storico di Palermo, una volta mutato definitivamente in pisciatoio per mondanucci attratti da mojito e merengue a basso prezzo? Una volta saturo di servizi per rutto&bivacco e caos, e trasformati in locande diffuse? E altro che riformisti vs conservatori! .
La movida, ipotesi reazionaria, è ormai puro rincoglionimento per vegliardi dinosauri. Un centro storico, sovraffollato di venditori di ciaffi, nullafacenti schiamazzosi e zombies e cloni stralunati, non deprime genius loci, occhi e anima di un osservatore che ama la bellezza? La caciara organizzata del centro storico è soprattutto in mano a criminaloidi ferocissimi che han saputo intercettarla come il business più redditizzio
La movida, ipotesi reazionaria, è ormai puro rincoglionimento per vegliardi dinosauri, per claudicanti bicentenari senza curiosità ed entusiasmi. Se non come grullata per farsi tre risate, o come propaganda volgare di sindaci scanzonati, non esiste, in riferimento ai centri storici, una distinzione tra ‘movida’ e ‘malamovida’ (vocabolo scemo da solito giornalese) che implichi la prima come benevola e auspicabile da contrapporre a una seconda, venefica e scellerata.
Già contraddittorio, poi, il binomio caos-fruizione di itinerari turistico monumentali: l’una esclude, per lampanti ragioni, l’altra, malgrado è questo che negherebbero facinorosi, gestori di locali e ‘artisti’ (il più delle volte, scadenti strimpellatori) di strada e fischiettanti perdigiorno per mancanza di basi culturali vere o per condurre svariate acque ai loro mulini. E fasulla, oltre che bozzettistica oltre ogni misura, qualsiasi ipotesi di movida come elemento propulsivo di ‘vitalità’ di un contesto urbano o di una città tutta. Un centro storico, sovraffollato di venditori di ciaffi, nullafacenti schiamazzosi e zombies e cloni stralunati, non deprime genius loci, occhi e anima di un osservatore che ama la bellezza? Un centro storico come quello palermitano in cui la concentrazione di aree per l’intrattenimento soffoca quello per il riposo e la vita, in cui esplodono friggi e bevi, mordi e rutta, food and beverage e live music (dentro e fuori i pub), violenta il paesaggio urbano storicizzato che lo connota, e nel modo più crudele, nella responsabilità di tutti (gestori, musicanti, avventori); insieme a ogni possibilità di esperienza consapevole dei beni artistici là depositati: non è vivente ma morente, non è allegro ma funereo, non è gaudente ma depresso.
Come recuperare le morfologie e le funzioni storiche se ne abbiamo perduto le specificità che le sottendevano? Come innescare processi di riqualificazione che non snaturino il corpo urbanistico del centro città, sputtanandolo? (E poi, qualcuno chiederà: “ma se la maggioranza della popolazione di una città sta in giro fino a notte fonda 7 giorni su 7, che tipo di vitalismo, progresso e futuro ci riserverà, se saranno troppo pochi quelli che si sveglieranno per andare al lavoro l’alba successiva?)
Svaccarsi per bene “si può e si deve”, soprattutto se a gestire la morte notturna sono guitti, pendagli da forca (ex o in itinere), capi spaccio di quartiere, riciclatori di denaro sporco, nullatenenti in pensione, manager di corse clandestine di cani o cavalli e squallidi imprenditori. Quindi, altro che accorti e responsabilmente umani Rick Blaine, la caciara organizzata del centro storico è soprattutto in mano a criminaloidi ferocissimi che han saputo intercettarla come il business più redditizzio, e forse l’unico possibile in una città morente. Apocalisse di Palermo, a suon di bossanova e vecchia, drum&bass, techno jazz, piano bar, su promontorii strett food a base di cassonetti, graveolenze, diossina e interiora, con bambini in giro fino alle dieci di sera. Perchè tanto “che ce ce ne fotte a noi?”, il giorno dopo c’è l’evasione scolastica, coi motorini smarmittati da impennare e cavalcare e il bivacco alcolico sui gradini del teatro Massimo fin dalle 9 del mattino.