Belli e incompresi, forse siete ancora in tempo per vedere i film più sottovalutati del 2017

Dalla commedia horror Get Out al cannibalismo di Raw, senza dimenticare l’erotismo del decadente The Handmaiden, opera della maturità di Park Chan-wook. Vi inquietano i concorsi di bellezza per bambini? Non perdete Casting JonBenét: il docu-crime più all’avanguardia mai visto

Per queste rassegne di fine anno ormai non servono presentazioni. Ho cercato di dare spazio a film ottimi che – almeno in Italia – hanno avuto poca eco, e questo è il risultato. Se detestate le tinte horror passate direttamente al terzo film.

Get Out

Negli Stati Uniti se n’è parlato un sacco. Da alcuni è stato definito il film dell’anno; per molti, insieme a Raw (vedere sotto), è tra le pellicole più rappresentative della nuova golden age del cinema di genere – horror in particolare – che si sta dimostrando più sottile, curato e autoriale di tanti film blasonati e dai budget megagalattici.

Più che horror, potremmo definire Get Out una horror comedy, godibile anche per i non amanti del genere. A renderlo così popolare negli Stati Uniti è stata la capacità del regista Jordan Peele di trasformare un thriller in un riuscitissimo apologo sul razzismo. E di film sul razzismo non seriosi, strappalacrime o ambientati nel passato – perché oggi, si sa, il razzismo non esiste più – l’America aveva decisamente bisogno. Un film che raccontasse il razzismo per quello che è: una cosa che fa paura.

Lo spunto è semplice e comedy: è la formula “ti presento i miei”. Una giovane coppia (lui nero e lei bianca) che parte per passare il week end nella grande magione di campagna dei genitori di lei. Il protagonista Chris, per la prima volta a contatto con i futuri suoceri, anziché fare una figuraccia dietro l’altra – come colpire per sbaglio il padre ostile durante una partita di tennis o lasciar scappare l’animaletto di famiglia – si comporta in modo assolutamente normale, come tutti cercheremmo di fare. Ciò che non è normale, invece – per Chris e per lo spettatore – è il crescente senso di disagio, la sensazione netta che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato in questa ricca famiglia democratica. Un disagio così palpabile che a tutti, almeno una volta – con l’impulso naïf di parlare allo schermo – verrà voglia di dire al protagonista: “Vattene! Get out from there!”.

P.S. Su Reddit si sono scatenate le teorie cospirazioniste sulle sottotracce interpretative del film. E Jordan Peel, che è uno simpatico, le commenta in questo video.

Raw

L’idea di un coming of age (storia di formazione) sul tema del cannibalismo è di per sé geniale. La trasformazione del corpo (tipica della post adolescenza) è portata alle estreme conseguenze; la scoperta della carne – della sessualità, ma anche dell’antropofagia – è manifestazione radicale del potere degli istinti, e insieme critica a una certa rappresentazione della femminilità: dolce, edulcorata, poco corporea e quindi poco umana. (Che poi è il viatico per la deriva sessista della donna “da conquistare”, quindi dalla volontà debole e dagli istinti sessuali scarsi). Ma ci sono anche gli aspetti canonici della storia di formazione: il film coincide infatti con l’arrivo della protagonista al college, tappa formativa per eccellenza, luogo di sperimentazione e trasformazione.

Nata in una famiglia di veterinari e vegetariani convinti, Justine si iscrive alla stessa facoltà (frequentata anche dalla sorella maggiore), e il suo primo approccio alla carne coincide proprio con il rito di iniziazione del corso di laurea. Il rapporto con la sorella è al centro del film e forse ha il suo culmine quando le due si ritrovano a lottare come pitbull in un’arena, davanti ai compagni che le riprendono con i cellulari. La violenza e gli aspetti disturbanti del film non si limitano però alle due protagoniste. La scena iniziale dell’incidente d’auto è già spiazzante e la continua insistenza sui corpi animali rimarca l’importanza della fisicità.

C’è una sequenza in particolare: un cavallo che viene sedato con la ketamina e che crolla davanti ai nostri occhi, con tutta la sua mole ingombrante. È una scena efficace, anche perché la regista Julia Ducournau ha ottenuto il permesso di filmare un’autentica sedazione in una scuola di veterinaria. La sua intenzione era mostrare come anche una creatura così maestosa sia in balìa del proprio corpo, esattamente come Justine. Per gli stomaci non troppo deboli Raw è un film innovativo e folgorante. Consigliato a cinefili famelici e femministe convinte.

P.S. Non guarderete più i finger food senza pensare a questo film.

Lady Bird

È un coming of age, ma completamente diverso da Raw. Si apre con una citazione che dà già il tono: “Chi parla dell’edonismo della California non ha mai trascorso un Natale a Sacramento”. Il film di Greta Gerwig è ironico e divertente, una brillante celebrazione dell’adolescenza e della sua volontà testarda: la brama di novità, di scossoni, di andare “dove gli scrittori vivono nei boschi”. È ambientato (suppongo non a caso) nel 2002, di cui ricostruisce con attenzione musica, abbigliamento e mood, e per un’ora e mezza circa ci riporta ai sogni di gloria ingenui degli anni liceali, aiutandoci a guardarli con simpatia bonaria, sospendendo le critiche pragmatiche.

Il tema della ribellione giovanile, una volta tanto, non è presentato in modo tragico, ma come una naturale tappa della vita. La città di Sacramento è opprimente, ma è anche conformante, come sono spesso i luoghi natali. I genitori non sono dei tiranni: hanno i propri difetti ma sono fondamentalmente amorevoli, e la regista riesce a caratterizzarli con onestà e precisione emotiva quasi chirurgica. Anche la scuola cattolica non è così oppressiva. Insomma, il film non affronta nessun problema cruciale. Se non contiamo la smania e l’indeterminatezza che accompagna lo stare in bilico tra l’infanzia e l’età adulta (“I’m not a girl, not jet a woman”).

P.S. In Italia dovrebbe uscire in aprile: save the date.

The square

Il regista – di cui abbiamo già parlato – è quello di Forza Maggiore, film riuscitissimo sulle paure umane, gli istinti e il desiderio di sicurezza. Con The square – non a caso Palma d’Oro a Cannes – Ruben Östlund mantiene alla grande il livello e riesce in quella critica al mondo dell’arte contemporanea che Sorrentino aveva provato a realizzare ne La grande bellezza, con risultati piuttosto rozzi. La finzione, l’esibito elitarismo e l’avidità vengono fuori grazie al protagonista, non un artista ma il curatore di un importante museo di Stoccolma. Scelta decisamente più brillante.

Anche lo spunto è brillante: l’acquisto di un’installazione chiamata appunto “The Square”: uno spazio quadrato e vuoto delimitato da un perimetro luminoso all’interno del quale tutti hanno uguali diritti e doveri, uno spazio virtuoso, “santuario di fiducia e altruismo”. L’intento è quello di ricreare una nuova agorà e di richiamare ai valori civili dell’arte. Un intento sistematicamente disatteso dallo stesso protagonista, che al di là delle nobili intenzioni dell’opera da lui scelta non perde occasione per dimostrare la sua totale assenza di compassione. Il film è una sorta di tragedia slapstick, con incidenti e momenti surreali. E mentre si discute del ruolo dell’opera d’arte nella contemporaneità (ciao Benjamin), il messaggio del “quadrato” e il dibattito che genera resta un rumore di fondo.

P.S. Questo film è ancora al cinema, quindi sbrigatevi.

Ah-ga-ssi – The Handmaiden

Preferisco il Park Chan-wook sanguinario a quello manierista e i revenge movie alla Lady Vendetta a quelli retti da sotterfugi. Eppure non si può non parlare di questo film. Quando un regista iconico come Park Chan-wook (quello di Oldboy, per intenderci) se ne esce con un film che potremmo definire “della maturità” val la pena di parlarne, anche solo per dire: lo preferivamo quando era più spontaneo e c’era meno grandeur (che poi è la mia – banale – opinione).

Confronti col passato a parte, questo film decadente, che riadatta nella Corea degli anni ’30 il romanzo di ambientazione vittoriana Fingersmith di Sarah Water, ha parecchi meriti. Trama semplice – coppia di malviventi cerca di truffare ricca ereditiera – ma intreccio complesso, diviso in tre parti, che rappresentano diversi punti di vista (tipo L’urlo e il furore di Faulkner), ognuno dei quali ribalta quello precedente, complicando sempre di più il gioco di intrighi che i tre personaggi principali mettono in atto.

L’aspetto più interessante del film è però come racconta l’erotismo. Nel mondo di Park bellezza e oscenità si compenetrano, l’erotismo può essere suggerito (“Tutti questi bottoni per il mio divertimento”), esplicito (con scene di sesso lesbo che Vita di Adele, levate! Park è molto più realistico ed elegante), e ancora: feticista, teatrale e addirittura grottesco. Lo sfondo storico gioca sul rapporto della Corea con il colonialismo Giapponese e richiama il tentativo delle due protagoniste di ritagliarsi uno spazio tutto loro, al di fuori delle narrazioni degli uomini. Uno dei film più femministi che abbia visto di recente.

P.S. Per stare sul tema “domestiche”, consigliatissima, se ve la siete persa, la serie tv The handmaid’s tale.

Casting JonBenet

I concorsi di bellezza per bambini sono già inquietanti. Ancor di più se sono connessi a un omicidio. Per la quota documentari: Casting JonBenét, di Kitty Green, il docu-crime più all’avanguardia che abbia mai visto. L’omicidio irrisolto della piccola reginetta di bellezza JonBenet Ramsey, avvenuto la notte di Natale del 1996, è raccontato attraverso i provini che un gruppo di attori non professionisti – per lo più gente del luogo e conoscenti della famiglia Ramsey – si trovano ad affrontare per partecipare a un fantomatico spettacolo (il film stesso? Un ipotetico film che ricostruisca il caso? Una messa in scena teatrale? Non ci è dato saperlo. Come non sappiamo se ne siano a conoscenza gli attori stessi).

Ci troviamo quindi davanti decine di madri di JonBenét, vestite come la donna ai tempi dell’omicidio, decine di padri, di fratelli, di sceriffi e di JonBenét stessa: tutti che provano la loro parte, dialogano tra loro e sostengono audizioni on camera per ottenete il ruolo. Gli (aspiranti) attori parlano per lo più a ruota libera ed è interessante come la smania di ottenere la parte li porti a raccontare aneddoti molto intimi e dolorosi (passato in prigione, madre bordeline, fidanzata morta…), nel desiderio di mostrare la propria connessione emotiva con la vicenda.

Il film è frustrante: si fanno audizioni per uno spettacolo che non andrà mai in scena e si specula su un delitto che è ancora senza colpevole. Dare spazio alle teorie degli attori però – la maggior parte propensi per il crimine sessuale – offre a Green l’occasione per far emergere una critica nei confronti della iper-sessualizzazione delle ragazzine negli Stati Uniti di provincia, che culmina con la scena finale: il frammento di un balletto di JonBenét (quella vera) in costume di piume e lustrini e mosse da diva provocante: uno spettacolo che, per come è inquietante, parla da sé.

P.S. Il fatto che in Italia i concorsi per bambini non abbiano attecchito risveglia orgoglio patrio.

Coming soon: You Were Never Really Here – A beautiful day

Come bonus track un film che in Francia è già uscito da mesi ma che in Italia (ma anche negli USA) arriverà solo nel 2018 inoltrato. Diretto da Lynne Ramsay, il film ha fatto vincere a Joaquin Phoenix la palma d’oro come miglior attore. E mi sento di dire in anticipo, non avendo ancora visto il film, che è sicuramente meritata, perché Phoenix è uno degli attori più bravi del momento e dalle scelte interpretative più interessanti. Qui è nei panni dell’eroe solitario taciturno e dalla barba incolta: un reduce – traumatizzato come quasi tutti i reduci – che si guadagna da vivere cercando ragazze scomparse. Non vedo l’ora di vederlo impugnare un martello.

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