Il bastone. Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, è certo. Ma non sono sempre i migliori scrittori quelli che se ne vanno. Severino Cesari, indubbiamente, era uno dei ‘migliori’, è stato un’ottima persona, così dicono i suoi amici e così si intende leggendo il suo libro postumo, Con molta cura. Leggendo Con molta cura, però, si capisce anche, indubitabilmente, un’altra cosa: Severino Cesari sarà stata un’ottima persona, è un dramma averlo perso, ma con Severino Cesari non abbiamo perso un grande scrittore. Anzi, non abbiamo perso neppure uno scrittore. Il fatto che, in modo scomposto e patetico, Giancarlo De Cataldo abbia proposto di assegnare il Premio Strega a Cesari indica due cose. Primo: il Premio Strega non vale nulla, premia le lagne degli editori più forti. Secondo: la letteratura italiana contemporanea è ridotta a un immane piagnisteo, all’alcova delle anime belle. Capisco. Vi capisco e vi do ragione. Se pregate perché muoia tra atroci sofferenze, avete ragione. Ma io non mi sposto di un millimetro. La letteratura è spietata, la letteratura è bastarda, non è per i puri di cuore, per i pietosi che impetrano un posto al sole, la letteratura è pura forma, la sostanza del letterato la lasciamo ai piagnoni amici suoi. Ergo: sostanzialmente Cesari sarà stato un’ottima persona; esteticamente (la forma, la forma) è un pessimo scrittore. Con molta cura è un libro pietoso, dove, dalla malia del male e del dolore, non si mungono altro che frasi fatte, buone per pasturare i social: “Scrivere, camminare, mangiare e bere con le tue mani, afferrare gli oggetti, sfogliare un libro o un giornale sono cose normali solo finché non ci vengono tolte”; “Prendervi cura di voi stessi, e di quelli cui volete bene. E magari anche degli altri. Non c’è davvero altro, credete”; “Infinita la magia della vita”. Questa non è letteratura, la letteratura – che se ne sbatte se siamo buoni, bastardi, malati, sani – non ammette frasi così, oliate nel buonismo e nel già detto, allora ci bastano le sentenze di libri ben più vertiginosi, chessò, i Vangeli, le lettere di Seneca, le riflessioni di Marco Aurelio, i pensieri di Leopardi. Il resto del libro, tolti i gatti che fastidiosamente lo affollano, si riduce a qualche orazione politica che potrebbe proferire un Gentiloni qualsiasi – sulla tragedia dei migranti nel Mediterraneo: “fermiamo con ogni mezzo legittimo i mercanti di morte”; sul ‘caso Regeni’: “Per questo, Giulio, mi unisco anch’io, come tutti, al saluto per accogliere la tua salma che torna a casa, torna in Italia” – a un red carpet di odi rivolte reiteratamente all’“amico geniale” Paolo Sorrentino, a una serie di consigli per gli acquisti, dal “libro inesauribile” di Simona Vinci a Osvaldo Soriano (“il suo capolavoro, quel meraviglioso Triste solitario y final”), a Moby Dick, ma nella “versione, per me meravigliosa, dovuta a Ottavio Fatica”. Ovviamente, sono tutti libri griffati Einaudi, l’editore che stipendiava Cesari. Letto impietosamente, il libro di Cesari fa pietà, ma nessuno lo dice, sono tutti anime pie. Perché? Perché la morte, che è il tema centrale di ogni atto letterario, da Gilgamesh alla Morte di Ivan Il’ic a Curriculum mortis di Enrico Emanuelli – libro misconosciuto ma di allucinata bellezza – è ancora un tabù, ma in realtà non rivela nulla. La prossimità con la morte, l’essere coinquilini con il male, non concede all’uomo alcun surplus di saggezza: ecco la feroce verità del libro di Cesari. C’è molto più sale nelle probabili parole ultime di Tonino Guerra, il poeta di Amarcord e della pubblicità dove esulta “l’ottimismo è il profumo della vita!”, sussurrate a stento all’amico Gianni Fucci, “il mondo è cattivo”, che in tutto il libro di Cesari. A ritroso, piuttosto, potremmo domandarci: ma come si è consolidata la fama di editor di uno scrittore così infelice? Il problema, però, non è di Cesari, ma di chi ha deciso di collezionare spudoratamente questi pensieri – efficaci semmai, nella cerchia degli intimi e degli amici – in un libro ‘pubblico’. “Questo diario esiste come una sfida, prendere il male e renderlo Cura”, si giustifica, in calce al libro, Michele Rossi, responsabile dell’operazione editoriale. Beh, sulla ‘cura’ – con tutte le sfumature grammaticali: la ‘cura’ della salute e la ‘cura’ editoriale – ha già scritto Martin Heidegger, tutto il resto è noia, il rischio, piuttosto, è che a forza di parlare di ‘cura’ l’editore sia incorso in una incuria irrecuperabile. D’altronde, ci tiene ad avvisarci Rossi, quando “il lavoro era finito”, cioè il libro finalmente collezionato, “abbiamo bevuto da una bottiglia di Grattamacco, un nettare Bolgheri che sarebbe stato perfetto con i frittini della Trattoria Monti, abbiamo pianto e ci siamo salutati”. Eccola lì, la letteratura italiana contemporanea: finisce sempre a tarallucci, lacrimucce e vino.
Severino Cesari, Con molta cura, Rizzoli 2017, pp.432, euro 19,00
La carota. La morte è il tema indubitabile, indiscusso della letteratura. Certo, scrivendo della morte e del male si rischia di essere mortiferi, mortificanti, oppure, all’opposto, pietosamente petulanti, delle allegre comari che al posto di sputare sulle proprie tombe – come insegnava Boris Vian – sulle tombe coltivano margherite di campo. Uno dei più straordinari pezzi letterari sul fine vita, anzi, meglio, sul porre fine alla propria vita s’intitola Memorandum per un vecchio amico e lo ha scritto Ryunosuke Akutagawa, un dandy nipponico, magro, dalla bellezza inquieta, cultore della tradizione giapponese e della letteratura occidentale – laurea su William Morris, devoto a Maupassant e ai russi – un samurai del racconto breve, un vero maestro. Incipit risoluto (“Nessun aspirante suicida ha prima d’ora descritto fedelmente le proprie condizioni psichiche. Forse per orgoglio, o per difetto di interesse per la propria psiche”), concetto plumbeo (“da due anni penso unicamente alla morte”), ritmo narrativo glaciale, indifferente, senza cadute patetiche, neanche quando lo scrittore descrive con analitica accuratezza “come darmi la morte” e il “luogo in cui suicidarmi”. “Ora vivo in un mondo di nervi malati, trasparente come ghiaccio”, scrive lo scrittore, giungendo all’acme del suo ragionamento narrativo. “La natura mi appare così splendida perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo. Credo di averla contemplata, amata e compresa più di chiunque altro: è forse l’unica mia gioia fra tante sofferenze che ho accumulato”. Questo è il tema centrale del racconto. Proprio perché si è sulla soglia della morte, la natura appare splendida. Tramutato in poetica: lo scrittore è colui che ha in dono gli “estremi sguardi”, che sa guardare le cose per la prima e unica volta, una volta per tutte, per sempre, che muore ogni volta, in ogni libro. Qualche giorno dopo, per autenticare ciò che aveva scritto, nel luglio di 90 anni fa, Akutagawa si uccide, con il Veronal. In onore a Cesari vorrei consigliare la bella edizione dei racconti di Akutagawa, Rashomon, pubblicata da Einaudi nella collana ‘Stile Libero Big’ l’anno scorso. Solo che nella raccolta manca – chissà perché – Memorandum per un vecchio amico. Bisogna, allora, leggere l’antologia curata da Lydia Origlia, La ruota dentata e altri racconti, pubblicata da SE nel 2003.
Ryunosuke Akutagawa, La ruota dentata e altri racconti, SE 2003