Generazione Betamax: ecco perché siamo tutti delle macchine inutili

Come il sistema di videoregistrazione domestica lanciato da Sony nel 1975 e naufragato nello scontro con il VHS, la generazione dei venti-trentenni sono le vittime di un sistema che ti illude e poi ti abbandona negli scatolini o, quando va bene, ti impiega a fare mansioni banali

(Estratto da Teoria della classe disagiata, minimum fax 2017)

Immaginate un’azienda che fabbrica un certo tipo di macchina in previsione di una domanda molto ampia. Si tratta di un gigantesco investimento, ma altrettanto gigantesco è il profitto atteso. Immaginate poi che la previsione si riveli completamente sbagliata: la domanda si è contratta e le macchine non si vendono. Immaginate allora tutte queste belle macchine, oramai inutili, abbandonate nei magazzini. O svendute. Smontate. Distrutte.

Bene. Ora immaginate di essere una di quelle macchine.

La generazione dei venti-trentenni della classe media occidentale, con i loro diplomi e le loro competenze inflazionate, si sarà forse riconosciuta in questa descrizione che la vede nell’insolito ruolo di capitale umano, come si suol dire. La società occidentale ha fallito nel prevedere e pianificare le competenze che sarebbero state utili alla società a medio e lungo termine, e ha fallito per via di un effetto di composizione tra le previsioni dei singoli individui. Tutti hanno creduto possibile scavalcarsi reciprocamente per ottenere i posti più ambiti, lasciando il resto del lavoro agli immigrati del Terzo Mondo. Così facendo, la maggior parte di coloro che avevano qualche risorsa ha investito tutto nel progetto di trasformarsi nella più perfetta delle macchine inutili. Semplificando, è come se ogni famiglia abbastanza ricca per permettersela avesse acquistato una costosa macchina per stampare banconote – si tratta peraltro del punto centrale del programma dei movimenti sovranisti – con il solo effetto d’inflazionare il valore complessivo di quelle banconote. Semplificando un po’ meno, diremmo che la sovraccumulazione ha causato la devalorizzazione del capitale. Il capitale che prima generava un profitto ha iniziato a generarne meno, oppure non ne genera più, o addirittura genera perdite. Questo capitale deve essere distrutto.

Il problema si era già posto chiaramente, come già accennato, a metà degli anni Trenta in Francia. Un professore di economia, André Liesse, aveva denunciato gli effetti perversi della scuola obbligatoria e gratuita in un articolo del 1938 («Inflation de parchemins. La crise des travailleurs intellectuels»):

I promotori di queste innovazioni non ne avevano previsto le conseguenze, molto costose innanzitutto, e inoltre gravi: la formazione di un proletariato intellettuale, di diplomati che credono che i loro titoli diano loro certi diritti.

Come un tempo nelle scuole militari si studiavano le grandi battaglie per trarne insegnamento, oggi nelle Business School gli aspiranti manager analizzano successi e fallimenti commerciali in forma di exempla edificanti. Imparano così che il mercato è in continua trasformazione e che è necessario trasformarsi con esso: innovando se necessario, ma senza compromettere la propria posizione. Alcuni di questi casi sono oramai proverbiali, in particolare quelli negativi, le cosiddette brand failure. In tempi recenti ricordiamo Kodak, che sottovalutò l’impatto della fotografia digitale e continuò a investire nella pellicola, acquistando nuovi stabilimenti fino al 2003. Ma la parte da leone nel pantheon delle brand failure la merita forse il Betamax, il sistema di videoregistrazione domestica lanciato da Sony nel 1975 e naufragato nello scontro con il vhs.

La società occidentale ha fallito nel prevedere e pianificare le competenze che sarebbero state utili alla società a medio e lungo termine, e ha fallito per via di un effetto di composizione tra le previsioni dei singoli individui. Tutti hanno creduto possibile scavalcarsi reciprocamente per ottenere i posti più ambiti, lasciando il resto del lavoro agli immigrati del Terzo Mondo

Il fallimento, s’insegna ai giovani ambiziosi, fa parte del gioco: un gioco darwinista che si chiama mercato, nel quale ogni trionfo costa cento errori. Alcune aziende falliranno e altre prospereranno, ma nel complesso il meccanismo è virtuoso: Joseph Schumpeter parlava perciò di «distruzione creatrice». Ma cosa succede quando un’intera economia sbaglia direzione, allocando i fattori produttivi su settori sbagliati? Cosa succede se, invece di essere assorbito dalla statistica, l’errore risulta sistemico? Avremmo forse l’occasione di scoprirlo nei prossimi anni: poiché questa è appunto la nostra storia, la storia di un epocale «civilization failure», per parafrasare Schumpeter, come le tragiche decisioni raccontate da Jared Diamond in Collasso. La storia di un’economia che ha investito in un miraggio le sue migliori risorse, contando sull’arricchimento ex nihilo di una società interamente convertita al terziario avanzato. La storia di un sistema educativo che ha fabbricato un’intera generazione di macchine inutili, la generazione Betamax.

Nel 1942 Schumpeter, che pure difendeva la superiorità del capitalismo sugli altri sistemi economici, decise di prendere sul serio la domanda seguente: «Il capitalismo può sopravvivere?» Si tratta del titolo della seconda parte della sua ultima grande opera, Capitalismo, socialismo e democrazia, e la sua conclusione sembra essere che il capitalismo è minato dall’interno non da una contraddizione economica come credono i marxisti ma da una contraddizione sociale, ovvero dall’ostilità – pure irragionevole secondo lui – che riesce a catalizzare su di sé. Il capitalismo insomma è condannato a soccombere per una crisi di legittimità che il suo stesso movimento produce, e che al suo cuore ha la tendenza strutturale alla produzione di disoccupazione intellettuale, la quale alimenta il radicalismo politico. L’economista austriaco è consapevole che la sua distruzione creatrice non è indolore, perché il suo costo umano è altissimo: alla fine «l’insoddisfazione genera risentimento». Ma in ultima analisi, se riconosciamo che l’insoddisfazione è prodotta da una scarsità relativa di merce-status, non è questa contraddizione essa stessa economica?

Il capitalismo insomma è condannato a soccombere per una crisi di legittimità che il suo stesso movimento produce, e che al suo cuore ha la tendenza strutturale alla produzione di disoccupazione intellettuale, la quale alimenta il radicalismo politico

Una classe si costituisce non solo nel suo rapporto con il capitale ma nel suo essere capitale essa stessa. A differenza di quello che una volta veniva chiamato «proletario», perché non possedeva nulla se non la propria prole, il membro della classe media dispone di un eccesso di capitale che gli è assolutamente necessario per riprodursi e mantenersi entro la classe di provenienza. Questo investimento riproduttivo si chiama «formazione» e include l’educazione scolastica e universitaria, l’apprendimento di codici e linguaggi, la costruzione di un network. Se non investe capitale sufficiente, la classe media – in un contesto di crisi economica latente che dura dalla fine degli anni Sessanta – condanna i propri figli al declassamento. Ma il costo di questa riproduzione risulta sempre più elevato e sempre meno redditizio a causa dell’escalation formativa: elevato perché aumentano gli anni di studio richiesti, meno redditizio perché la crescente concorrenza sul mercato del lavoro deteriora le condizioni contrattuali. A fronte di questo costo, la demografia della classe media si adatta in funzione delle proprie possibilità – ovvero si smorza, si estingue. E così precipita anche la domanda di beni borghesi, e così il valore dei membri della classe in quanto capitale, eccetera. La cosa più assurda che possa fare una società, a questo punto, è scommettere tutto quello che le resta sulla monocoltura del terziario e dei consumi posizionali. Eppure lo ha fatto! Ha formato i propri figli a fare cose raffinatissime e li ha educati a consumarle. Sembrava l’invenzione del moto perpetuo, la grandiosa abolizione del lavoro. Ma era solo un sogno. Ora milioni di macchine si stanno svegliando.

Molti sostengono che il Betamax fosse un formato migliore del vhs, ma questo non è stato sufficiente. Che fine hanno fatto quei vecchi videoregistratori? I più fortunati vengono oggi venduti su internet come oggetti d’antiquariato, testimoni di un’epoca piena di ottimismo, altri sono stati smembrati e riciclati, diventando macchine più utili: bippano, scaldano, frullano. Impegnati in mansioni banali, non possono fare a meno di ripetere indignados: «Io sono un Betamax, che ci faccio qui?» Alcuni si radunano per occupare i comodini e sperimentare esperienze di democrazia reale. Tutti ricordano con malinconia gli anni bellissimi in cui pareva davvero che i Betamax avrebbero conquistato il mondo.

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