I musulmani, popolo di perseguitati: perché dello scontro di civiltà non abbiamo capito nulla

Il maldestro attentatore di New York aveva lasciato il Bangladesh nel 2011. Ora quella terra accoglie centinaia di migliaia di Rohingya che scappano dalla Birmania dove sono perseguitati. Impariamo a leggere la realtà da una prospettiva diversa, come insegna Stephen King

Stephen King ama dire che il suo mestiere di scrittore, in fin dei conti, consiste solo nel mostrare le cose da una prospettiva diversa. E’ un peccato che la maggioranza del mondo dell’informazione non condivida con l’autore di “It” la stessa opinione sul senso del proprio lavoro.

Il fatto che da anni sia in atto, sulla Terra, un pauroso Scontro di Civilità è un fatto acquisito, e chi si ostina a negarlo, dietro il vessillo della fratellanza a prescindere, non fa altro che aggravarlo. Il problema è che, nell’era delle bolle-social, le forze in campo e le prospettive dello scontro sono assai diverse da quelle raccontate solitamente dai media per rassicurare i lettori.

Akayed Ullah, l’autore dell’ultimo attentato a Manhattan, è un terrorista buono più per una puntata di Paperissima Sprint che per i libri di Storia. Voleva causare una strage guadagnandosi una corsia preferenziale per il Paradiso; si è ustionato come quelli dei botti a Capodanno e ora lo aspetta l’Inferno delle carceri americane. Eppure a New York si è fermato lo shopping natalizio, il suo nome ha fatto il giro del Mondo e puntuale si è trascinata per giorni l’ennesima polemica sul “Muslim Ban”, il divieto di accesso ai cittadini di sette Paesi Musulmani (tra cui nemmeno risulta esserci il Bangladesh, paese natio di Ullah).

In Egitto, qualche settimana prima, un attacco terroristico molto più efficace aveva causato la morte di 235 persone in una moschea; eppure la notizia era stata digerita in poche ore, tipo bibita fresca ingollata in un souk al Cairo. Un doppiopesismo che non ha senso, soprattutto a livello numerico, e in cui però puntualmente caschiamo.

D’altronde, credere che la violenza sia esclusiva di un’esigua minoranza o, al contrario, che sia parte essenziale della religione islamica, come fanno alcuni ultras del “Mondo Occidentale” (spesso interessati alle restrinzioni delle libertà individuali solo quando riguardano i governi degli altri) significa comunque accettare la prospettiva del derby tra due squadre. Noi e Loro oppure Noi contro di Loro, a seconda della bolla.

Basterebbe, tuttavia, allargare la prospettiva per vedere come il campo sia molto più grande e soprattutto affollato da una lunga lista di “Loro”.

L’immagine che la cultura mainstream restituisce oggi degli Hindu è il volto buffo di Apu, lo stakanovista dei Simpsons proprietario del Jet Market; o le gag di Aziz Ansari che in Master of None ha la fidanzata italiana chiusa in cucina a fare la pasta (ma le femministe americane non dicono nulla, perché è italiana e dunque va bene così – altra questione di prospettiva).

In realtà, in molte zone a maggioranza Hindu dell’India, Paese che da solo ha una popolazione superiore a quella dell’intero “Mondo Occidentale”, le persecuzioni a danno della minoranza musulmana hanno superato il livello di guardia, con l’aggravante – dalla nostra prospettiva – di essere motivate da ragioni molto bizzarre.

Il vessillo della fratellanza a prescindere, non fa altro che aggravarlo. Il problema è che, nell’era delle bolle-social, le forze in campo e le prospettive dello scontro sono assai diverse da quelle raccontate solitamente dai media per rassicurare i lettori.

Proviamo orrore all’idea che qualcuno si faccia saltare in aria a un concerto per costringerci a cambiare stile di vita; ma che una persona ne uccida un’altra per costringerla a cambiare regime alimentare ci appare così grottesco che quasi non sappiamo prenderlo seriamente. Eppure è esattamente quello che accade.

I Gau Putra Sena, ovvero “L’Esercito dei Figli di Vacca”, sono un gruppo di insegnanti, avvocati e contadini la cui missione è difendere, con qualsiasi mezzo, la vita delle mucche, che come si sa sono considerate un animale sacro dalla religione Hinduista. Organizzati in brigate raccolte attorno a un capo spirituale, operano nella zona dell’Haryana, nel Nord-Ovest del Paese, dando la caccia ai musulmani che uccidono segretamente le mucche per venderle sul mercato nero della carne.

Sembra la trama di un film dei Monty Python ma con i Figli di Vacca c’è poco da scherzare: nel 2015 hanno ucciso almeno 28 persone (chissà come li invidia Ullah, dal reparto Grandi Ustionati del Bellevue Hospital di Manhattan).

Eppure i musulmani non hanno intenzione di smettere: siccome non c’è come vietare un prodotto per aumentarne il valore, la carne di mucca garantisce affari d’oro, specialmente per una minoranza che per guadagnarsi da vivere spesso non ha altra alternativa che lo spaccio di bistecche.

L’attività dei difensori delle mucche rientra ovviamente nel contesto di violenze che Hindu e Musulmani si scambiano da sempre, ma segna comunque uno scatto in avanti.

Retorica, simbologia ed efferratezza, appaiono molto simili, a livello formale, a quelle delle cellule dell’Isis. Come se non bastasse, associazioni umanitarie come Amnesty International hanno accusato il BJP, il partito nazionalista vincitore delle elezioni nel 2014, di chiudere volontariamente un occhio davanti alle persecuzioni degli islamici.

Una delle prove sarebbe il tentativo, nello scorso maggio, da parte del premier Narendra Modi di far approvare un controverso “Cow Ban”, un divieto di macellazione per ogni tipo di mucca, anche di quelle poche di cui la legge consente l’uccisione.

Proprio come il “Muslim Ban” anche il “Cow Ban” è stato bloccato dalla Corte Suprema: ma, allo stesso modo di The Donald, anche The Modi non si è perso d’animo e ha ripresentato la legge, estendendo il divieto anche ai cammelli, per aggirare l’accusa di aver presentato una legge razziale.

Mentre si attendono sviluppi sul caso, c’è da avere le vertigini sia nel vedere quei simpaticoni degli Hindu vestire i panni dei terroristi sia nell’assistere ad uno Scontro di Civiltà in piena regola, a cui però noi Mondo Occidentale assistiamo dalla tribuna, probabilmente tifando per quei Musulmani che una parte di noi considera nemici, in forza di quegli ideali di libertà e Ragione che secondo loro, paradossalmente, mancherebbero alla religione islamica.

Che una persona ne uccida un’altra per costringerla a cambiare regime alimentare ci appare così grottesco che quasi non sappiamo prenderlo seriamente. Eppure è esattamente quello che accade

Non é finita: basta allargare la prospettiva ancora un po’ perché le vertigini si trasformino in nausea.

La Birmania, o Myanmar, è uno Stato Asiatico a maggioranza buddhista, che viene raccontato, sul sito di una delle principali agenzie turistiche italiane, come “uno spettacolo a cui non puoi più rinunciare” adatto sia alle coppie “in cerca di una fuga romantica” sia ai single interessati a “vivere avventure mozzafiato”.

I Rohingya, invece, sono un gruppo etnico di religione musulmana che vive – o prova farlo – proprio in Birmania, che dalla loro prospettiva appare un luogo assai meno eccitante.

Secondo le Nazioni Unite, i Rohingya in Birmania sono una delle minoranze più perseguitate al mondo: il genocidio di cui sono vittima continua da sempre, ma tra il 25 agosto e il 24 settembre di quest’anno ne sono stati ammazzati 6.700 di cui 730 bambini al di sotto dei cinque anni.

Se i Rohingya non sono ancora scomparsi del tutto è grazie al Bangladesh – non esattamente un Paese ricco – che da anni, sulla spinta di pressioni internazionali, ne accoglie a migliaia e che, negli ultimi tre mesi, ne ha visti arrivare 620 mila (per fare un confronto, la nostra “invasione”, in prospettiva, conta 116 mila unità in tutto il 2017).

Bangladesh da cui, per tornare alla prospettiva di partenza, se ne era andato Ullah nel 2011 col desiderio di non farci più ritorno. Almeno in questo, il suo piano ha avuto successo.

Buddhisti che invece di aspettare il Nirvana causano un genocidio; Hindu che bastonano a morte un uomo colpevole di trasportare una mucca col pick-up; Musulmani vittima alla meglio di una sanguinosa caccia alle streghe, alla peggio di uno sterminio di massa.

Le storie raccontate da prospettive diverse fanno molta paura, perchè mostrano quanto sia complicato il Male. Tuttavia, è solo così che si impara a conoscerlo e, come nelle storie di Stephen King, a combatterlo.

Esattamente quello che noi lettori e scrittori pigri, prigionieri per comodità della nostra prospettiva unica, non impareremo mai.

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