La pubblicità non sembra mai una cosa seria. Quando interrompe un film – o, peggio, un video su Internet – esprime tutta la sua fastidiosità. È troppo vicina all’inganno e alla menzogna per essere apprezzata. Al limite, viene considerato il suo carattere estetico, oppure se diverte. Il più delle volte viene ignorata o dimenticata subito. Eppure è importante: serve per vendere, fa funzionare il commercio e circolare nomi e marchi. Richiede investimenti, pensieri e strategie complesse. È uno strumento potente, ma ha una buona reputazione. Avrebbe bisogno di un po’ di pubblicità.
Non è una battuta: è accaduto davvero. Negli anni ’20 i lettori del magazine per donne Women’s Home Companion si trovarono di fronte a una rubrica curiosa: un elogio dell’utilità della pubblicità. Insieme alle notizie su salute, politica estera e psicologia, indicazioni su come votare (era una cosa ottenuta da poco, andavano istruite), c’era un inaspettato intervento pro-pubblicità. Il suo obiettivo era duplice. Da un lato, si trattava di una semplice operazione monetaria: riuscire a richiamare inserzionisti attirandoli con un ambiente favorevole. Dall’altro, ideologica: la pubblicità – sosteneva la rivista – era una coa buona perché “ha superato il suo obiettivo primario ed egoista, ma è diventato, di fatto, un servizio pubblico”. Con la pubblicità si può manovrare meglio l’economia di scala e migliorare la qualità della merce, riducendo anche i costi. Come si poteva chiedere di più?
Insomma, la rubrica di mese in mese elogiava la pubblicità: storie, idee, racconti. Una donna del Wyoming, nel 1927, si sarebbe messa a studiare le pubblicità per “imparare nuove cose”, e “per scoprire nuovi sistemi che rendono la vita più semplice”. Oppure altre due donne che, anziché iscriversi all’università, decisero di “studiare il modo migliore per fare lavori di casa con l’aiuto delle pagine pubblicitarie della rivista”. Tagliando, compilando, studiando le réclame si erano fatte un’idea chiara dei prodotti in commercio e li avevano utilizzati.
Alla fine, il Companion vinse la sfida. Gli inserzionisti lo preferirono alle altre riviste femminili e li inondarono di pubblicità e soldi. La rubrica, dopo aver tanto seminato, venne chiusa. Era arrivato il momento del raccolto.