Molestie (e non solo): la lettera di Salma Hayek è una lezione all’Italia omertosa e vigliacca

“Combatti il tuo mostro”, dice l’attrice nella sua missiva al New York Times. Una lezione al Paese che delega la lotta agli altri, ne coglie i frutti se vincono e li deride se perdono

Jamie McCarthy / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / AFP

«Questo autunno, sono stata avvicinata da dei giornalisti, attraverso diversi canali, compresa la mia cara amica Ashley Judd, perché raccontassi un episodio della mia vita che, benché sia stato doloroso, pensavo di aver superato. Mi ero fatta da sola il lavaggio del cervello al punto di convincermi che fosse passata e che fossi sopravvissuta; ho sfuggito la responsabilità di parlarne con la scusa che c’erano già abbastanza persone intente a gettare luce sul mio mostro. Non pensavo che la mia voce fosse importante, né che avrebbe fatto qualche differenza»: la lunga confessione che Salma Hayek ha pubblicato sul New York Times non è solo l’ennesima testimonianza sulle molestie sessuali che stanno emergendo un po’ in tutto il mondo ma è soprattutto una lezione civica che qui da noi ci coglie impreparati (al solito) con tutte le nostre omertà, diffidenze, indifferenze e immaturità.

Salma Hayek non parla di Weinstein ma scrive della sua umanissima codardia nel credere che sia possibile affidare la distruzione dei propri mostri agli altri, come se la delega per avere giustizia sia affidata ogni volta a qualcuno: al giornalismo, alla magistratura, a testimonianze che consideriamo più forti della nostra, a personaggi che riteniamo più solidi di noi, a inchieste che speriamo che siano gli altri a fare. Salma Hayek, in pratica, risponde a tutta la fastidiosa sicumera di chi spalma quintali di editoriali per insegnarci che “chi non denuncia subito è colpevole” fingendo di non accorgersi di quanto l’Italia sia tragicamente omertosa per costituzione e per natura.

Omertosi. Sì. E vigliacchi.

Lavoro da settimane sui Weinstein di casa nostra e sulle molestie nei diversi settori lavorativi. Assisto disgustato al chiacchiericcio letamoso dei fallocrati spaventati e osservo stanco la schiera di camerieri travestiti da muse che smanacciano in mezzo alla folla per certificare la buona fede di questo o quel regista. Leggo tra un conato e l’altro le lezioni di coraggio civico di chi per un posto al sole si erge a giudice in qualche salotto televisivo, tutto fiero di essere il punitore delle fragilità degli altri illudendosi di sembrare davvero forte. Sotto la brace, nel mondo reale, tutti i giorni sono un susseguirsi di racconti, di nomi e cognomi (quelli usciti, quelli che usciranno e forse anche quelli che non usciranno affatto) di ragazze che confermano uno scenario profondamente diverso: se il giornalismo si facesse con gli appunti delle frasi dette chiedendo di non essere pubblicate per paura, per le possibili ritorsioni, per non perdere il posto, per non svegliare il nemico allora si coglierebbe la malafede e l’oppressione di tutti quegli altri.

Siamo il Paese che un minuto prima bisbiglia “si sa, funziona così, da sempre” e poi sale sul carro del primo rottamatore (o sfanculatore) e poi ancora si rimette buono a bisbigliarsi ancora: “si sapeva che non gli avrebbero permesso di cambiare le cose” e ci si sdraia sul divano, telecomando in mano

Salma Hayek, in fondo, ci dice questo: smettetela di vivere sperando che siano gli altri a sgomberarvi il campo dai vostri nemici, finitela di considerarvi assolti dando pacche solidali sulle spalle di quelli che combattono la battaglia a cui voi avete deciso di non prendere parte. E vale in tutti i campi. Tutti.

Siamo il Paese che delega la battaglia alla criminalità ai magistrati e agli scrittori. E va bene così, comprandosi un libro o una maglietta. Siamo il Paese che ha combattuto il berlusconismo facendo la ola alla magistratura, credendo che bastasse quella per disinnescarne la politica (e poi tutti stupiti o sconvolti che sia tornato in auge appena finita la pena, ovviamente). Siamo il Paese che con Salvini ha trovato addirittura il modo di appaltare finanche il proprio razzismo senza nemmeno il dovere di esporlo. Siamo il Paese che un minuto prima bisbiglia “si sa, funziona così, da sempre” e poi sale sul carro del primo rottamatore (o sfanculatore) e poi ancora si rimette buono a bisbigliarsi ancora: “si sapeva che non gli avrebbero permesso di cambiare le cose” e ci si sdraia sul divano, telecomando in mano.

E così, sprofondati nell’indolenza verso il prendere una posizione, alla fine invecchiamo odiando sotto sotto chi denuncia, come se smascherasse troppo impudicamente la nostra inerzia. Chi denuncia è un’anomalia e allora tutti a frugare tra le pieghe della sua vita per provare a coglierne la perversione: se ha denunciato nel Paese dei silenti allora deve per forza averci guadagnato, deve avere un interesse recondito, deve essere parte di un complotto planetario o peggio forse uno spostato, un instabile, un malato e quindi bugiardo. Se davvero negli USA la curiosità si avvita tutta sui presunti colpevoli piuttosto che sulle vittime fosse semplicemente per una cultura più matura della denuncia? No, no. Dicono qui: “gli USA semplicemente sono bigotti”. E si sfregano le mani per l’analisi arguta sperando che non si noti quanto sia disdicevole invece avere sacralizzato il silenzio.

La lettere di Salma Hayek è una lezione civica: “Spero che aggiungere la mia voce al coro di coloro che stanno finalmente denunciando getti luce sul perché sia così difficile e sul perché molte di noi abbiamo aspettato così a lungo. Gli uomini molestano perché possono farlo. Le donne stanno parlando oggi perché, in questa nuova era, finalmente possiamo farlo.” La lettera di Salma Hayek è la confessione di chi non si può più permettere di fare luce.

Solo che nel paese dei “cazzi tuoi che campi 100 anni” sembra che non voglia impararla nessuno.

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